“..Fate anche in modo che leggendo la vostra storia, il malinconico s’inclini al riso.
Puntate la vostra mira a rovesciare la traballante macchina di questi romanzi cavallereschi,
aborriti da molti e lodati da moltissimi; e se vi riuscirete
avrete fatto non poco…”
DON CHISCIOTTE, Miguel de Cervantes
Fra le tante belle storie che questa Lega ci ha regalato ce n’è una piena zeppa di accostamenti, che in me suscita una certa curiosità.
Non è la classica storia del ragazzo che viene dal ghetto e ce la fa ad emergere e poi a vincere, perché il ragazzo in questione direi che non potrebbe provenire da nessun ghetto già per il semplice fatto che non è nero, e neanche americano, e non è mai sembrato neanche un ragazzo (a prima vista potrebbe sembrare il componente di un gruppo britpop inglese).
Insomma, non ha l’aria di uno sportivo, e non ha mai neanche vinto, perlomeno a livello di squadra.
Cosa c’è di tanto speciale da raccontare allora? E cosa hanno in comune, a parte il cognome, Steve e John Nash? E a cosa si deve questo accostamento a Don Chisciotte?
Beh.. proviamo a raccontarlo.
Steven John Nash, detto semplicemente Steve, nasce il 7 Febbraio a Johannesburg, Sud Africa, da madre gallese e padre inglese, quel padre che era un modesto giocatore professionista di calcio, al tempo appunto militante in una squadra dello Stato africano.
La famiglia Nash passa 7/8 anni in Sud Africa, a cavallo fra gli anni ’70 ed ’80, in un clima non proprio congeniale per un bambino bianco ed i suoi fratelli, in un territorio dove in quegli anni l’apartheid regna sovrana e la divisione fra bianchi e neri diventa sempre più pericolosa da affrontare nella quotidianità.
Steve questo non lo comprende, è un bambino curioso con voglia di scoprire il mondo e tanta energia e mezzi per farlo.
E’ affascinato dallo sport. Cazzo se gli piace. Suo padre gioca a calcio ed ovviamente è bianco, i neri giocano a calcio ed i bianchi giocano a rugby.
Lui vorrebbe giocare a tutto. E non intende soffermarsi sui colori della pelle, gli piacciono le diversità che vede in tutte quelle persone, l’alternarsi degli sport e dei colori della pelle. Ama la differenza fra le sue tradizioni inglesi rispetto a quelle africane dei neri, che poi sono differenti da quelle dei bianchi africani.
E’ tutto molto particolare; potrebbe essere tutto bello, ma non lo è.
Lui è un bambino, ma il mondo gira veloce e nessuno sembra semplicemente voler giocare, e tutta quella diversità attorno che a lui suscita curiosità, agli altri evidentemente crea paura. Soprattutto per suo padre, che prende la decisione di spostare tutta la famiglia in un posto più adatto alla serenità comune.
E’ così che la nostra storia si sposta a Vancouver, Canada.
Il Canada offre alla famiglia Nash ed in particolare a Steve la condizione esatta per canalizzare e sfogare al meglio la sua energia e la sua curiosità.

Steve, oltre al calcio, dove sembra molto portato (calcolate che avrebbe tranquillamente potuto giocare in una squadra professionista di medio livello) impara a giocare subito, da buon canadese adottivo, ad hockey su ghiaccio e curling.
Solo successivamente, verso i dodici-tredici anni, con tutta la calma necessaria incontra la pallacanestro.
Non è un amore fulmineo, nel senso che lui tende ad approcciare agli sport con la medesima curiosità e devozione, e non appartiene ad uno solo di questi come non appartiene in fondo a nessun territorio e Nazione.
Il mondo è vasto, come vaste sono le possibilità che gravitano attorno ad esso.
Il basket però gli riesce davvero bene. Dà libero sfogo alla sua intelligenza, gli permette di sentirsi libero, di prendere parte a qualcosa.
E’ così che casa sua diventa il parquet. Talmente tanto casa sua che un giorno va da sua madre e le dice:
“Sai, un giorno sarò una star dell’NBA”.
“Ok Steve, puoi diventare tutto quello che vuoi”.
E così sia allora.
Finita la trafila del college (113 gare con 14.9 punti di media e 4.5 assist) si laurea in sociologia e psicologia e si presenta dritto al draft.
Con la quindicesima chiamata lo pesca… Phoenix.
Quei Suns con cui lo vedrete protagonista? No ragazzi, è troppo presto, non ancora.
Sono i Suns, ma non quei Suns.
C’è da dire innanzitutto che la scelta è molto contestata dai tifosi, non felici del fatto che la franchigia abbia scelto un giocatore quasi sconosciuto, in uno spot peraltro già occupato da Sam Cassel.
Steve gioca la sua prima stagione da riserva, con una decina di minuti di media a partita.
La seconda stagione, invece, fa da riserva ad un certo Jason Kidd, ma nonostante il suo minutaggio cresca comunque e le sue percentuali di tiro anche, viene scambiato con Dallas all’inizio della stagione 1998/99.

E’ un problema? No, nessun problema, anzi.. inizia nell’immediato a macinare un gioco migliore, ed i numeri incrementano.
Nella stagione 2000/01 mette a segno una media di 15.6 punti uniti a 7.3 assist, che consegnano di fatto a Dallas l’accesso ai Playoff dopo 10 lunghi anni.
Seguono stagioni molto buone, dove i Mavs aggiungono sempre un po’ di più al loro gioco grazie al loro playmaker che fa altrettanto e a quel meraviglioso giocatore che è Dirk Nowitzki.
Arriva il giorno poi, al termine della stagione 2003/04 , in cui Steve diventa free agent. Cuban gli offre, per rimanere, un contratto di 4 anni a circa 36 milioni totali. Contemporaneamente spuntano (ecco un po’ che chi non muore si rivede) i Suns (di nuovo i Suns) con un contratto di 63 milioni di dollari in sei anni.
Nash è riluttante all’idea di lasciare il certo per l’incerto.
Con Dallas, dopo tanto girovagare, ha sviluppato un buon legame, così va da Cuban e gli chiede di pareggiare l’offerta in modo da dover rimanere.
Il GM dei Mavs è perplesso nell’offrire un contratto così lungo ad un giocatore di trent’anni e quindi.. “no way”, il treno è di nuovo in partenza, e quella che credeva casa in fondo non lo era. Non lo era mai stata, per quanto ci avesse poi creduto.
Aveva speso anni, messo energia, mani, piedi, cuore…e mente.
La mente che se ne va insieme a tutto il resto, che citando De Andrè su “Khorakhanè” si sa, “E’ venuto il tempo di andare…Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare”.
Prossima fermata, quindi… Phoenix.
“Il cuore rallenta e la testa cammina. In un buio di giostre in disuso”
Vecchia Phoenix; che dopo una disastrosa stagione da 29 vittorie nel frattempo ha esonerato Frank Johnson e promosso il suo vice, uno che, come Nash, ha vissuto sempre con la valigia fatta e pronta per andare.
Di chi sto parlando lo sapete già: è ora di far entrare in scena lui, il nostro Don Chisciotte, alias Mike D’Antoni.

“Finchè un uomo ti incontra e non si riconosce”
Non possiamo sapere se Nash si riconoscesse in D’Antoni, eppure erano quasi la stessa cosa.
Nash è uno razionale. D’Antoni un drastico. Ma entrambi sono motivati. Ecco che allora i due, semplicemente, si fondono.
D’Antoni, se proprio dovessimo paragonarlo ad un allenatore del nostro calcio sarebbe Zeman: si gioca in velocità; si gioca per vincere, per fare più punti dell’avversario. Poi magari si perde, non importa, ma nel frattempo avrà lottato con tutta la purezza e la velocità possibile. Senza scendere a compromessi.
D’Antoni va da Steve, gli da il bentornato in casa Suns e gli dice, nel mio personale ma neanche tanto personale immaginario, queste parole:
“Sei il mio anello mancante. Hai le abilità tecniche per innescare una bomba e cambiare definitivamente il Gioco della pallacanestro”.
Immaginate cosa sia passato per la testa di Nash in quel momento. Come si sia sentito finalmente a casa. Come possa essersi rispecchiato nella drastica mente del suo coach, e possa aver da subito sposato una filosofia tanto semplice quanto utopica: Seven seconds or less.
Si gioca entro i sette secondi, ed anche meno. Alla base del concetto c’è un imperativo assoluto: correre; sempre più forte e correre ancora.
Ogni volta che si prende in mano la palla, o meglio, ogni volta che Steve Nash prende palla, deve far concludere l’azione offensiva entro i sette secondi. Così da incrementare notevolmente i possessi palla per gara, avere almeno tre volte tanto la possibilità di aumentare le percentuali e, grazie ai suoi scarichi, di portare all’esasperazione il tiro da tre.
Cosa ne esce fuori lo sappiamo tutti: Nash ha un fisico molto asciutto, alto “solo” 1.90, con gambe, mani e pensiero veloci. Questo gli permette di correre in lungo e in largo palla in mano e di favorire lo scarico a cecchini come Joe Johnson e Quentin Richardson, o mandare al ferro Marion e Stoudemire, oltre che a duettare con un’altra bella mente, quella di Boris Diaw.
Il pubblico di casa impazzisce vedendo questi Suns giocare in perenne contropiede.
Se le difese riescono ad arginare la prima soluzione Steve gioca un pick & roll velocissimo, con i piccoli a sparare triple da dietro l’arco ed i lunghi ad attaccare il ferro sempre e comunque. Tutti devono per regola tirare alla minima concessione, anche se il cronometro segna ancora 20-22 secondi da giocare.
Il risultato? Si passa da 29 a 62 vittorie. Una media di squadra di 110,4 punti a partita, la più alta negli ultimi 10 anni.
Steve lascia un’impronta indelebile nella pallacanestro del nuovo millennio, e le sue percentuali fanno stropicciare gli occhi: 50% dal campo, 40% dall’arco e 90% ai liberi.
Sforna la bellezza di 11,5 assist a partita e strappa il titolo di MVP a Shaquille O’Neal, diventando il primo canadese della storia a vincerlo ed il terzo playmaker dopo Magic e Cousy.
Quel ragazzino con gli occhi grandi e lo sguardo altrove. Quel bambino appartenente a tutto e a nulla. Quel piccolo sognatore senza bandiera è ora proclamato il miglior giocatore della stagione.
Se fossimo meno cinici dovrebbe bastarci questo per vedere tutto il lato romantico che c’è in un traguardo simile, ed invece, giusto o meno, ci serve altro.
Vincere serve ai giornalisti, serve ai tifosi, serve ai detrattori, serve a D’Antoni, serve ai suoi compagni… serve a lui.
Pensandoci bene, dati alla mano, nulla sembra ostacolare il cammino dei Suns verso l’agognato e mai raggiuntoLarry O’Brien Trophy.
Durante i Playoff i Suns sconfiggono prima i Grizzlies per 4-0 e poi i Mavericks per 4-2.
Steve si prende la sua rivincita contro chi non ha creduto abbastanza in lui ed approda così con i suoi compagni alle finali di Western Conference (che mancavano dal 1993)
Gli avversari sono gli arcirivali Spurs. Quelli di Duncan, Bowen, Parker, Horry e Ginobili.
E’ sfida tra la squadra emblema di un’organizzazione architettonica e quei due che in sella a Ronzinante ed un asinello vogliono sdoganare ogni credo con il loro ideale cavalleresco.
Si fiondano contro i mulini a vento, e ne escono sconfitti.
Il tabellino racconta di un impietoso 4-1, che sta a sancire la sconfitta, di quelle sconfitte che servono anche a rialzarsi.
Nella stagione seguente però Stoudemire distrugge un ginocchio, Johnson e Richardson vengono ceduti e nel cuore di tutti si sa già che credere di ripetere una stagione come la precedente sarebbe solo l’ennesima utopia.
Per tutti tranne che per Steve Nash, che continua a lottare e porta i suoi a vincere la Pacific Division.
A fine stagione sforna una media di 18,8 punti a partita, 4,2 rimbalzi, 51,2% dal campo, 91,2 ai liberi e 10,5 assist.
Sono numeri che andrebbero riletti tre, quattro volte e contestualizzati, per capire bene cosa abbia fatto in quella stagione il canadese. Numeri che la gente dimenticherà poi troppo in fretta.
Arriva il secondo premio di MVP.

Arrivano poi anche i temibili Lakers come avversari ai Playoff e, dopo uno svantaggio di 3-1 nella serie, i Suns riescono a vincere 4 a 3 una serie epica.
Da lì approdano alle semifinali di Conference e battono i Clippers.
Finali ad Ovest ed eccolo lì il destino, che ancora una volta ha un nome preciso: Dallas Mavericks.
Qui sarebbe bello per me poter scrivere un finale differente.
Sarebbe bello, a mio parere, raccontare di un Nash che abbraccia D’Antoni e dimostra a tutti come un’idea folle possa cambiare il modo di vedere ogni cosa.
Mi piacerebbe raccontarvi di una Phoenix che approderà poi alle Finals e farà fuoco e fiamme.
Raccontarvi di quel piccolo genio cittadino canadese che trova finalmente il suo posto nel mondo: direttamente sul tetto d’esso; ma non è così.
Vorrei tanto aver visto Steve Nash piangere con il Larry O’Brien in una mano e quello di MVP delle Finals nell’altra, ma non è andata in quel modo.
Eppure c’è qualcosa di più importante in questa storia.
Qualcosa che non leggo mai in nessun racconto di quei Suns; qualcosa che va ben oltre un.. “ma Steve Nash non ha nessun anello al dito, quei Suns non erano abbastanza concreti e il seven seconds or less era fuffa”, ed è qualcosa che è talmente palese che quasi nessuno dice mai:
Quei Suns hanno cambiato la pallacanestro.
Questo perché, alla fine dei giochi, il titolo lo vince ogni anno qualcuno, ma il modo di interpretare uno sport lo cambiano in pochi.
Se dovessimo dividere la vecchia e la nuova era della pallacanestro a stelle e strisce dovremmo per forza dividerla in pre e post-Suns. Se dovessimo scovare l’anello di congiunzione ed il massimo esponente di ostentazione sarebbe a Nash che dovremmo guardare. Se dovessimo pensare a come si è notevolmente velocizzato il gioco e di come siano incrementati i tentativi di tiro, soprattutto da dietro l’arco, ci vedremmo costretti a pensare a Nash e D’Antoni come i custodi di un piano di mezzeria, un epilogo del Vecchio Testamento ed al tempo stesso un prologo del Nuovo.
Questo, a mio modo di vedere le cose, vale più di un anello.
Perché in quei sette secondi era scritta tutta l’utopia.
Erano sette secondi di follia.
Sette secondi di tutto o niente.
Era il precoce frutto di una bella mente.
Una mente meravigliosa…