Se qualcosa ci ha insegnato l’ascolto reiterato di The Dark Side of the Moon è che le cose – e le persone – si possono vedere sotto mille angolazioni diverse, e non sempre riflettono la luce allo stesso modo. Che ci sono milioni di modi diversi di scrivere una storia, una canzone. La stessa persona può essere considerata una grandissima persona o il suo esatto contrario, a seconda del contesto, del destinatario della domanda, della buona o mala fede, di simpatie o antipatie istintive e di mille altri fattori. Era ancora l’anno 2011 e uscivano articoli su articoli del tipo “Why LeBron James will never win an NBA title” – e sappiamo tutti com’è andata. Ma d’altronde nel 1990 c’era ancora un sacco di gente che nutriva dubbi sull’effettiva possibilità per i Chicago Bulls di vincere un titolo – e anche qui, sappiamo abbondantemente. Tutto questo, riportandolo al presente, ci porta alla tesi iniziale del presente articolo, ovvero che il più vistoso prisma ottico nella NBA di oggi è per distacco Russell Westbrook.
Westbrook attacks the rim with such force
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— Ballislife.com (@Ballislife) 4 luglio 2019
Russell Westbrook infatti non restituisce mai la luce esattamente come la riceve, come fanno ad esempio un Kawhi Leonard, un Antetokounmpo. Non la amplifica in maniera omogenea, come capita quando guardiamo giocare LeBron James, Steph Curry. Non la distorce sempre allo stesso modo come fa James Harden. Westbrook è un giocatore unico nel suo genere perché non c’è mai stato negli ultimi anni – forse nella storia del gioco, ma chi può dirlo? – un giocatore che ti dia allo stesso tempo così tanti motivi per amarlo e per odiarlo. Per usare una brillante definizione data da un giornalista USA su di lui, “è la migliore point guard della Lega ed è il più sopravvalutato. Se questo suona confuso, è perché lo è.” La sua velocità, il suo atletismo e la sua voglia, tutte concentrate in un unico giocatore, con ogni probabilità non hanno eguali in NBA.
The Early Years
“Non ho mai pensato che sarei arrivato in NBA. Un sacco di gente che è in NBA oggi era forte già quando aveva 8 anni. Io fino a 17 anni non ero forte per niente.” La prima volta che Ben Howland andò a vederlo di persona, alla Leuzinger High School di Lawndale, quando arrivò in palestra c’era solo questo ragazzino smilzo che stava spazzando il pavimento. Era andato a vederlo essenzialmente per due motivi: aveva sentito parlare della sua velocità, e la Leuzinger è a tipo 20 minuti di macchina da UCLA. Howland cercava un backup per Darren Collison, e pensava che questo Westbrook potesse fare al caso suo. Poco dopo arriva Reggie Morris, head coach di Leuzinger HS, e Howland gli fa: “dov’è Russell?” e la risposta di Morris entra di diritto nel mito: “è lì, è quello con la scopa in mano.” Ma Howland capisce subito diverse cose, su di lui. Leadership. Motivazione. Voglia di lavorare. Velocità. Intensità sui due lati del campo. Poi va dal suo assistente Kerry Keating e gli fa: “oh, ma questo non è un play.” E il suo vice gli risponde: “Non ho mai detto che era un play. Ho detto che sa giocare!”. Alla stampa losangelina, poi, Keating aveva l’arduo compito di spiegare come mai i Bruins stavano reclutando una point guard di neanche un metro e ottanta che non aveva neanche un buon tiro. Ma Russ, già allora, gioca like a bat out of hell, espressione idiomatica traducibile con “come un fulmine”, anche se non rende pienamente l’idea.

Nel suo primo anno a UCLA, questo talento ancora molto grezzo trova poco spazio. Gioca solo 9 minuti a partita, vuoi perché davanti ha Collison per l’appunto, vuoi perché ancora diversi aspetti del suo gioco sono migliorabili – tanto per fare un esempio, tirerà 17-31 dalla lunetta nella stagione.
Ma c’è un altro aspetto di lui che pian piano lo ha portato a diventare un giocatore NBA: oltre ad essere un gran lavoratore, era già allora anche un grandissimo studente del gioco. L’altro assistant coach di Ben Howland a UCLA, Donny Daniels, per conoscere meglio i suoi giocatori ogni tanto rivolgeva loro delle domande più o meno casuali. Una volta chiese a Westbrook: “Russ, chi è il tuo giocatore preferito tra i pro?” La risposta fu assolutamente inaspettata. “Pau Gasol. Mi piace il suo modo di giocare.” Commentando in seguito questa cosa, Daniels disse: “Non avrebbe dovuto essere una sorpresa, con tutto il suo amore e la sua voglia di conoscere il gioco. Russell sarà sempre differente, sceglierà sempre l’inaspettato.”
Russell Westbrook arriva in NBA con la quarta chiamata assoluta al draft 2008, scelto dai Seattle SuperSonics di cui non vestirà però mai la maglia, a causa della relocation di questi ultimi a Oklahoma City. Prima di lui vengono chiamati Derrick Rose, Michael Beasley, O.J. Mayo. Ha vestito per due stagioni la maglia degli UCLA Bruins, centrando in entrambi i casi le Final Four collegiali, al primo anno come cambio di Darren Collison e al secondo come suo compagno di backcourt, nonché come Pac-10 Defensive Player of the year. C’è da chiedersi come sia stato possibile che i Bruins di quegli anni non siano mai riusciti a portare a casa un titolo: quell’anno, la squadra di Ben Howland aveva in quintetto, oltre ai già citati Westbrook e Collison, Kevin Love e Luc Richard Mbah-a-Moute. Vabbè, sarà stata colpa di Russ, secondo i suoi detrattori, sarà stata colpa di Howland, diranno i suoi simpatizzanti, sarà stato il destino cinico e baro o chissà che altro. Il fatto che le sconfitte siano arrivate contro i Florida Gators di Billy Donovan – per chi scrive la più forte squadra vista in NCAA negli ultimi vent’anni – e contro i Memphis Tigers di Derrick Rose non sono ipotesi da prendere in considerazione. C’è solo un aggettivo per definire propriamente Russell Westbrook e questo solo aggettivo è polarizzante.
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Work Ethics
Il 24 novembre del 2018 è un sabato sera. I Thunder (12-6) ospitano I Denver Nuggets (12-7). È una gara di back-to-back, il giorno prima Oklahoma City ha vinto contro gli Hornets grazie a un trentello più 12 rimbalzi e 8 assist di Westbrook. Una vittoria li proietterebbe ad un aggancio ai Golden State Warriors in vetta alla Western Conference, in caso di sconfitta di Curry & co. Russell Westbrook gioca una partita piuttosto complicata al tiro, e nonostante riesca a mettere insieme una tripla doppia (16 punti con 10 rimbalzi e 12 assist), i suoi Thunder perdono 105-98 in una partita in cui tirano il 23% da oltre l’arco, e in cui Russ mette insieme un poco onorevole 1-12 da tre. È un sabato sera e i giocatori NBA in questi casi, quando giocano in casa, se non hanno partita il giorno dopo escono un po’ a rilassarsi. Non Westbrook. Senza nemmeno andare in spogliatoio a cambiarsi, il numero 0 di OKC resta due ore sul parquet, dopo la partita, ad allenarsi al tiro. Al mattino, come racconta Billy Donovan, era già in palestra dalle 9 per fare una sessione defaticante e presentarsi al meglio alla gara contro i Nuggets.

E sia Billy Donovan, sia i suoi compagni di squadra (tipo Paul George, per citarne uno), raccontano di come Russ sia arrivato al livello a cui è arrivato, di aggressività sui due lati del campo, grazie alla sua etica del lavoro, alla sua voglia continua e incessabile di migliorarsi. La sua energia sembra davvero fuori dal comune. I suoi compagni dicono di lui che anche durante i voli di trasferimento da un capo all’altro degli USA, dove solitamente i giocatori dormono un po’ per recuperare energie fisiche e mentali, Westbrook passa il suo tempo guardando filmati delle partite e dei prossimi avversari sul suo iPad. Il suo programma personalizzato di allenamento, tuttavia, è pressoché avvolto nel mistero: nel contratto coi Thunder, il suo personal trainer Joe Sharpe aveva una clausola che gli impediva di rilasciare interviste su questo argomento. Questa sua cura maniacale per la forma fisica è indubbiamente uno dei motivi per cui i tre interventi chirurgici al ginocchio di qualche anno fa non sembrano aver lasciato strascichi sulla sua esplosività. In tempi recenti, anche una leggenda NBA famosa per non avere peli sulla lingua, Gary Payton, ha detto, parlando di The Brodie, “mi piace il modo in cui gioca perché non ha amici. Anch’io giocavo così, volevo essere il numero uno delle point guard in NBA”. Le sue cifre, però, sono talmente impressionanti da non farci vedere tutto questo.
The Numbers
We call upon the people
People have this power
The numbers don’t decide
Your system is a lie
(Radiohead – The numbers)
Russell Westbrook mette insieme dei numeri spaventosi. Non c’è un altro aggettivo per descriverli. Dal giorno della partenza di Kevin Durant per la California, l’ex numero 0 di UCLA ha messo insieme tre stagioni consecutive in tripla doppia di media. Lo scriviamo in stampatello così si realizza meglio quanto sia grande questa cosa: TRE STAGIONI CONSECUTIVE IN TRIPLA DOPPIA DI MEDIA. Il play di Oklahoma City, al momento in cui scriviamo, è al numero 21 all-time della NBA per assist totali, al numero 59 per punti segnati, al numero 187 per rimbalzi. È secondo per triple doppie totali in carriera dietro al solo “Big O” Oscar Robertson, l’unico oltre a lui ad aver tenuto la tripla doppia di media per una stagione. Una, eh, non TRE CONSECUTIVE. Gliene mancano 44 per issarsi in vetta alla classifica di ogni epoca. Grazie, direte voi, facile fare triple doppie al giorno d’oggi dove tutte le squadre giocano a 100 possessi a partita. Ho una brutta notizia per voi: nel 1961-62, la stagione della tripla doppia di media di Robertson, la media della NBA era di 126,2 possessi a partita. Eppure, per Westbrook così come per James Harden, le cifre sono al tempo stesso croce e delizia. Perché i titoli NBA vanno sempre altrove, e riducendo la questione all’osso, it’s all about winning. E si torna da Jordan, ancora una volta, a MJ, tipo nel 1988-89, quando segnava 32.5 punti a partita con 8 rimbalzi e 8 assist, eppure i Bulls venivano presi a calci nel sedere dai Pistons, come l’anno prima e come l’anno dopo. C’era da portare a maturazione Scottie Pippen, Horace Grant e tutto il supporting cast, pensa te, chi l’avrebbe mai detto. It’s all about winning. E ad Oscar Robertson, dieci anni ai Cincinnati Royals e due sole serie di playoff vinte, fino a quando prende tutte le sue cose, le butta in valigia e si sposta verso nord, destinazione Milwaukee, dove trova Lew Alcindor, anzi, Kareem Abdul-Jabbar, e il titolo arriva al primo tentativo, a 32 anni e quando le triple doppie di media non sono più presente ma passato prossimo.
Eppure, viviamo sempre in quest’ansia del presente, in questa voglia smodata di emettere il verdetto prima della giuria, prima della fine della storia, così da poter dire “Visto? Io l’avevo detto!” o al limite fare finta di non aver detto niente, cancellare qualche post sperando che nessuno li abbia salvati. Ci concentriamo sul suo decision making (indubbiamente l’aspetto più carente del suo gioco, ma se vogliamo buttarla sul What if?, chissà che succederebbe se lo mettessimo tra le grinfie di un coach differente), lo riteniamo un giocatore concentrato esclusivamente sulle statistiche, ossessionato dalle triple doppie, senza prendere in considerazione l’ipotesi più semplice, e cioè che Russ giochi nell’unico modo in cui è capace, che per lui ogni possesso è vivere o morire, e che non potremo pensare di avere altro da lui perché, banalmente, non sarebbe più lui. La luce riflessa dal prisma ottico di Russell Westbrook è bellissima e confonde un po’ le idee, come le melodie di “The Dark Side of the Moon”. Abbiamo ancora un po’ di tempo per godercela, ma non tantissimo: mettiamoci seduti e lasciamo che le sue giocate ci riempiano gli occhi ancora un po’. E magari non è un caso se il prossimo capitolo di questa storia sarà scritto a Houston, dove c’è il museo delle scienze naturali che permette ai visitatori di vivere un’esperienza multimediale chiamata proprio “The Dark Side of the Moon”. Per il verdetto c’è tempo, vostro onore.