(Articolo in collaborazione con FIBA)
Domenica 14 luglio, una cospicua fetta del mondo dello sport aveva gli occhi incollati sull’erba del centrale di Wimbledon. Roger Federer e Novak Djokovic, due di quelle figure – soprattutto la prima – che travalicano i confini tra uno sport e l’altro, si davano battaglia in una delle finali più belle nella storia del tennis. Una di quelle partite che vorresti non finissero mai – e se il regolamento non avesse previsto un tie-break sul 12-12 del quinto set, i due sarebbero forse andati avanti oltre le già estenuanti 4 ore e 58 minuti di gioco. Una piccola porzione di quella fetta di pubblico, tuttavia, stava formulando un augurio diverso. “Speriamo che Federer e Djokovic non vadano così tanto per le lunghe”: avrebbero voluto collegarsi in tempo per la palla a due di un’altra finale, a Sarajevo, valida per la medaglia d’oro dell’Europeo femminile FIBA U18 tra Italia e Ungheria.
I due eventi hanno proporzioni ben diverse, ma se stringiamo i limiti dell’insieme, ci rendiamo conto che le ragazze della nazionale italiana sono, nel loro piccolo, una forza dominante. Una di quelle squadre, particolarmente rare a livello giovanile, capace di giocare da favorita essendo, in effetti, la favorita. Campionesse, in un’unica parola, indipendentemente dalle quattro cifre scritte sulla carta d’identità come anno di nascita. Non a caso, già la scorsa estate parlavamo di “generazione dorata”. L’Italia aveva appena vinto la medaglia d’oro agli Europei femminili U16, toccando l’apice di un percorso che coach Giovanni Lucchesi – un mentore sia dentro che fuori dal campo – aveva avviato anni prima. E le alfiere di quella generazione erano le “Fab Four”, quattro tra i migliori talenti nati nel 2002: Caterina Gilli, MVP del torneo, Ilaria Panzera, Giulia Natali, Martina Spinelli. Ma il quartetto beatlesiano non sarebbe stato forse sufficiente a superare le insidie del tabellone e a sbloccare la fase offensiva di una squadra solida, ma a volte troppo preoccupata di difendere il proprio canestro, senza l’apporto della sorpresa del torneo, Meriem Nasraoui, decisiva nella finale combattuta e vinta contro la Repubblica Ceca.
Estate 2019, quasi dodici mesi dopo, stessa competizione ma nuova categoria. Le ragazze del 2002 sono sotto età di un anno per la classe U18, ma loro non se ne fanno un problema. Nemmeno coach Roberto Riccardi che le convoca in blocco: “è una squadra che ha le stimmate del gruppo vincente”, dice l’allenatore. Parlare di Fab Four, ormai, sarebbe riduttivo. Oltre a Nasraoui, cardine insostituibile nell’ossatura del gruppo – spesso la prima ad alzarsi dalla panchina – ci sono Silvia Nativi, Clara Rosini, Francesca Leonardi. Le 2001, agli sgoccioli della carriera nel settore giovanile in attesa della prossima campagna U20 (l’Italia non è qualificata al mondiale attualmente in svolgimento in Tailandia) sono in minoranza: ci sono Beatrice Stroscio, Lucia Adele Savattieri e Silvia Pastrello, ma tra loro spicca Alessandra Orsili, 2.9 palle rubate a partita, determinante nella finale.
Quante cose possono cambiare in un anno? Ce lo dicono le cifre, ma stavolta non quelle sulla carta d’identità. +21, +22, +20, +39, +13, +26, +8, per uno scarto medio di oltre 21 punti. Sono i numeri delle vittorie italiane su Belgio, Germania e Croazia, per un girone eliminatorio passato sul velluto, e poi su Bielorussia, Spagna, Russia e Ungheria. A voler cercare il pelo nell’uovo, gli unici momenti di difficoltà delle ragazze di coach Riccardi sono stati quelli che si sono create da sole, infrangendosi in un pericoloso terzo quarto contro la difesa a zona della Spagna – poi regolata nel finale – e lasciando la porta aperta alla rimonta delle ungheresi in una finale che dopo pochi minuti sembrava già indirizzata in favore delle azzurre, capaci di contenere le ungheresi al 25% dall’arco (al torneo mantenevano una media del 40%). Non c’è da credere che l’agile cammino della generazione dorata sia dipeso dallo scarso valore delle avversarie, tutt’altro. È mancata all’appello la sfida con la Francia, fermatasi in semifinale e tuttavia priva del quintetto che vinse l’Europeo U16 due anni fa (Chery, Wadoux, Rupert, Fauthoux, Hoard) ma Spagna e Russia sono nazioni di altissima caratura nel settore femminile, basti pensare che proprio la Russia aveva da poco eliminato la nazionale maggiore negli Europei senior. E infine l’Ungheria, che sta vivendo a sua volta il proprio momento di grazia: argento agli Europei di Bourges nel 2017, quarto posto ai mondiali dell’anno successivo, una delle sole quattro squadre ad aver inflitto una sconfitta all’attuale ciclo della nazionale giovanile italiana. A questo, aggiungiamo il fatto che restare sulla vetta della piramide alimentare è spesso più complesso che scalarla dalla base; o per dirla con le parole di una nota canzone, “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Per qualcosa che cambia, dunque, c’è qualcos’altro che resta uguale. Lo scarto medio di +21 è la firma di un gruppo che ha trovato la propria identità e non arretra di un centimetro. “Personalità, gioco, e grande condizione fisica”. Così riassume la ricetta coach Riccardi. C’è tanta intensità e precisione in difesa, un concetto che si riverbera nelle menti cestistiche di coach Lucchesi e di coach Riccardi, e che ha attecchito a meraviglia nelle ragazze della nazionale. Giulia Natali ne è il manifesto vivente. Eccellente nella difesa individuale (già lo scorso anno coach Lucchesi aveva detto: “difenderebbe anche un muro, se glielo chiedessi”), prontissima nei raddoppi (4.3 recuperi a partita), e una comprensione del gioco offensivo che la porta a compiere la scelta giusta coi tempi giusti, con naturalezza (con 12 punti a partita è la migliore realizzatrice della squadra, e non te ne accorgi nemmeno perché raramente forza un tiro). Si è rivelata una partner perfettamente complementare per Panzera che invece, dall’alto del suo talento, ama spingere il pallone a ritmi alti. Ma la difesa è lavoro di squadra, e lo si apprezza ancora di più quando un gruppo s’intende a occhi chiusi. Affacciandosi alle semifinali, l’Italia era seconda per palle rubate e percentuale da due punti, sesta nei rimbalzi, quinta per minor numero di palle perse, e sopperiva alle non esaltanti percentuali da tre punti (23.8%, a fronte in verità di soli 3.8 tentativi che la ponevano all’ultimo posto in classifica) con un’ampia dose di punti facili, in contropiede o sorprendendo la difesa non schierata, generati da recuperi difensivi o palle vaganti. Poi il rendimento costante di Caterina Gilli, nominata nel migliore quintetto del torneo nonostante caviglia e polpaccio sinistro in disordine, che colleziona oltre 9 punti e 7 rimbalzi di media – ancora più importante, è seconda per assist nella squadra. La crescita di Orsili e Spinelli, i minuti guadagnati da Savattieri, 190 cm e ancora tanto spazio per migliorare, la fantasia e la faccia tosta di Nasraoui che ha preso l’abitudine di premere l’interruttore ogni volta che la squadra si ferma. E soprattutto, Ilaria Panzera.
Non fermiamoci al titolo di MVP, agli 11 punti, 6 rimbalzi e 4 assist di media, alla tripla doppia sfiorata contro la Spagna. Che Panzera avesse qualcosa di speciale, è notizia conosciuta – per farci un’idea, stiamo parlando di una ragazza che oltre a giocare molto bene, sa esprimersi altrettanto bene: “Dopo tutti i sacrifici che un atleta compie nel suo anno sportivo, è stato bello poter trasformare il sudore in lacrime di gioia”. Lo sapeva coach Lucchesi e lo sapeva coach Riccardi, che le ha affidato licenza di uccidere; un bel rischio con chiunque, a maggior ragione con una diciottenne. Gli Europei U16 furono il ballo delle debuttanti sulla scena internazionale per Panzera. Ci si lustrava gli occhi per il suo talento, ma al tempo stesso ci si preoccupava: una giocatrice con quella tecnica individuale e quella personalità deve avere il pallone in mano per più tempo possibile, e lei stessa ammette di preferire lo spot di point guard perché le piace quel tipo di responsabilità, ma per quanto riguarda il playmaking vero e proprio, e la leadership sul campo – riuscirà a mettere insieme tutto quanto? Un’estate dopo, la risposta sembra essere un sonoro sì. A veder giocare Panzera sul parquet di Sarajevo, il consueto repertorio di passaggi spettacolari e ubriacanti slalom verso il canestro, si direbbe che l’Italia abbia in cantiere una stella che potrà replicare la parabola di Cecilia Zandalasini e magari imitarne l’impatto mediatico e il potenziale gravitazionale. La strada è ancora lunga, ma agli occhi di molti Panzera sta già modellando il proprio cammino agonistico su quello di Zandalasini: anche Cecilia fu MVP di un Europeo U18, e provengono entrambe dalle fila della Geas di Sesto San Giovanni – e tuttavia, con i sei anni di età che le separano, non si erano mai conosciute di persona prima dell’intervista organizzata lo scorso anno da Rolling Stone. Insieme a Giulia Natali e Martina Spinelli, le ragazze erano appaiate in una simpatica posizione ibrida tra sorelle, colleghe e rivali: “Io e lei abbiamo un problema, perché lei è sponsorizzata da un brand e io da quell’altro. Ma almeno una cosa l’abbiamo in comune: a volte mi paragonano persino a lei, mannaggia”, diceva Panzera, senza mostrare alcuna traccia di timore reverenziale. Nel frattempo, è diventata testimonial su Freeda e Glamour per la campagna Nike “Nulla può fermarci”. “Il basket è divertimento, quando gioco sono spensierata“: in queste due frasi sta il fulcro della sua genuina, nascente immagine mediatica. Ma anche se in prima pagina c’è il sorriso, l’impegno e la determinazione non passano mai in secondo piano: avvicinandosi all’estate, l’obiettivo dichiarato di Panzera non era tanto l’oro con la selezione U18 – per come la conosciamo, probabilmente lo dava già per scontato – quanto una convocazione con la nazionale maggiore.
Ora che la generazione dorata ha compiuto il suo destino, portando a casa un’altra medaglia del metallo più consono alla propria nomea, cosa ci resta per il futuro? Il basket femminile italiano attraversa un periodo sfaccettato, di grande vitalità, che è foriero anche di molti problemi difficili da districare. Le vittorie portano a un incremento di popolarità, e di successi ne abbiamo visti: due ori tra le selezioni U16 e U18, il Mondiale 3×3 conquistato lo scorso anno dal magico quartetto Rulli-D’Alie-Filippi-Ciavarella, oltre ai traguardi individuali di Cecilia Zandalasini con Fenerbahce e Minnesota Lynx. Gli sport di squadra femminili stanno maturando una credibilità tutta nuova, basti pensare all’attenzione che si è creata intorno ai recenti Mondiali di calcio, che dall’orbita degli Stati Uniti si è allargata nelle quattro direzioni. Forse manca ancora una prestazione da punto esclamativo della nazionale maggiore per spiccare il balzo verso un nuovo livello anche in Italia. Il pubblico ha seguito con crescente interesse l’ultima avventura delle azzurre all’Europeo di Belgrado, coadiuvato da piattaforme web che su questi ambiti di nicchia operano sempre più in vece delle consuete trasmissioni televisive, covando aspettative elevate e forse non troppo legittime. La nazionale allenata da Marco Crespi si è fermata dopo quattro partite, stoppata da Ungheria e Russia, e anche l’entusiasmo dei tifosi ha dato una brusca frenata.
Quando si parla dell’Italia del basket declinata al femminile, si pensa spesso a limiti strutturali – altezza e peso, nello specifico – più facili da nascondere nei settori giovanili, ma che salgono a galla inesorabili tra le professioniste. Il tema è attuale, se ragioniamo su come le Fab Four e le loro altrettanto valide pari età potranno inserirsi nel gruppo delle senior, che prosegua o s’interrompa la gestione Crespi. In un basket meno atletico e, giocoforza, più formalmente ancorato alle posizioni in campo rispetto alla sua controparte maschile, la stazza da schierare nel pitturato resta un elemento spesso imprescindibile – e su cui l’Italia paga storicamente un debito nei confronti dei paesi dell’Est, non riuscendo poi a restare al passo di Francia e Spagna, che possono pescare da un bacino più ampio grazie alla maggiore popolarità dello sport in patria. Eppure, le ragazze del 2002 hanno già ribaltato il pronostico in questo senso. Il gap fisico si è già palesato in questi Europei U18, in particolare contro la Spagna e il suo frontcourt potente, ma l’Italia ha saputo aggirare brillantemente l’ostacolo – e come abbiamo visto dalle statistiche, non ha nemmeno avuto bisogno di ricorrere a strategie estreme come l’abuso del tiro dall’arco: “La nostra priorità in attacco è stata sempre attaccare il ferro ma quando questo non è stato possibile abbiamo creato le situazioni per delle alternative”, ha detto coach Riccardi. Tre anni fa, all’apertura di questo ciclo, voci di corridoio interne alla Federazione lasciavano trapelare una certa sfiducia, fin dal primo ritiro di Udine. Il gruppo sembrava sprovvisto dei centimetri necessari per competere con le squadre più quotate, e ci si interrogava su come limitare i danni per non retrocedere nella Divisione B. Il campo ha dato un responso ben diverso. In questi tre anni l’Italia ha scoperto un tesoro di atlete che giocano e incidono nella massima serie del campionato (Panzera, Natali, Orsili, Gilli) e altre che le imiteranno a breve. Non resta che sperare che le Fab Four e la generazione dorata restino unite, e infondano la loro cultura vincente anche nella nazionale maggiore. Il basket femminile italiano ne ha bisogno, per decollare.