Kobe Bryant, assoluto

(articolo in collaborazione con Together, rivista ufficiale di Pistoia Basket 2000)

Quando un atleta si avvicina al tramonto della carriera, in America hanno un modo di dire. “Padre Tempo l’ha raggiunto”. Come se fosse un inseguimento, come se la parabola sportiva fosse un rubare anni, energie e freschezza al naturale corso del tempo: ecco perché gli atleti sono capaci di imprese sovrumane, ed ecco perché Father Time alla fine ti acchiappa sempre, anche se sei il migliore. Non si può battere il tempo correndo più veloce, così come non si può imbrogliare la morte semplicemente guardando dall’altra parte. Esistono però condizioni particolari nelle quali il tempo si può fermare. E non è questione di leggende che vivono per sempre nella memoria: persino per gli uomini che hanno lasciato sul suolo un’impronta tanto grande da mutare la geografia del mondo, e Kobe Bryant è tra questi, quell’ultima memoria un giorno svanirà. È questione di balistica, di inspirare ed espirare. Quando si vola, o quando si fa volare un pallone, si trattiene il respiro, e più persone trattengono il respiro insieme e più il mondo si gonfia d’aria, si fa leggero e ti fa galleggiare un po’ più lontano. Quell’istante prima di atterrare è un istante assoluto. Non puoi sapere se il pallone entrerà nel canestro o sbatterà sul ferro, perciò l’immagine sfarfalla, il pallone si sdoppia, uno che entra e uno che esce, entrambi perfettamente veri. E in quell’istante aereo vivi per sempre; senza gravità, del resto, non ci sarebbe il tempo. Questo è straordinariamente palese nella pallacanestro, che si gioca tutta in equilibrio sulla bilancia della gravità, e straordinariamente bello. La carriera di Kobe Bryant, in una strana ironia, cominciò con quattro voli dall’atterraggio indesiderato. 

Salt Lake City, Playoff NBA del 1997, Kobe è al primo anno nella lega e i suoi Lakers fanno visita ai Jazz per gara 5 delle semifinali di conference. Shaq, la stella della squadra, è fuori per falli e al supplementare Kobe si prende ogni responsabilità sulle spalle. Sbaglia quattro tiri consecutivi che non sfiorano nemmeno il ferro. Airball. Era un rookie, aveva ancora tutto da dimostrare. Lo avrebbe fatto, e persino di più. Bastava solo la giusta spinta, la giusta motivazione; la giusta umiliazione.

Nove anni dopo, la situazione si ribalta. Sotto di un punto in casa contro i Suns, nei Playoff 2006, i Lakers riconquistano il possesso con cinque secondi sul cronometro e sai già che il tiro della vittoria entrerà nel canestro. La corsa verso il pitturato senza neanche guardare i compagni, l’elevazione sopra le mani protese di Raja Bell e Boris Diaw, un istante che era già scritto. E poi, nell’aprile 2013, l’infortunio al tendine d’Achille e la dimostrazione che non serve saltare per ingannare il tempo: lì Father Time ti aveva incatenato una caviglia al parquet, ma hai tirato comunque il libero – e l’hai segnato – prima di uscire dal campo.

Noi lo sappiamo bene come funziona questo trucco per ingannare il tempo, l’abbiamo provato sulla nostra pelle. Abbiamo vissuto una settimana con il respiro sospeso, bloccato all’attimo in cui abbiamo appreso la notizia, un attimo in cui la tua immagine si sdoppia in due Kobe Bryant, uno ancora con noi e l’altro finito altrove. Abbiamo allungato e stirato ogni fibra di quest’attimo, l’abbiamo stretto in nodi perché durasse più a lungo. Ma prima o poi le immagini devono riallinearsi, altrimenti il tessuto si strapperà. Abbiamo giocato a basket per te e insieme a te questa domenica, in tutta Italia, abbiamo sorriso con il potere catartico del gioco. Abbiamo cominciato a scioglierli, quei nodi. A lasciarti libero e assoluto in ogni istante; non importa dove atterri il pallone.

Ciao Kobe.

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