Wade: A Flash out of nowhere

A Chicago si muore più che in Iraq

Era il 2015 quando Spike Lee usciva nei cinema con “Chi-Raq”. Nick Cannon cantava “Please, pray for my city”, mentre sullo schermo scorrevano dei numeri a rendere tangibile tale accostamento:

In Iraq, fra il 2001 ed il 2015, si contano 4424 morti americani.
Chicago in quegli anni seppellisce 7356 figli, e sono soltanto quelli morti per omicidio.
L’enorme città è divisa in nove distretti, nei quali sorgono più quartieri, da sempre in guerra fra loro.
Al centro della frazione “South Side” alberga la storica Metropoli Nera, dove batte il cuore del vero blues del Michigan e quello, dai tempi di Al Capone, della più cruda criminalità d’America.
Zoomiamo ancora un po’, mentre lasciamo che il vento della Windy City fenda questo sanguinoso cielo.

Inizio anni ’80

L’America è nel pieno boom del traffico d’armi ed in quello della droga. Chicago è il fulcro di tutto questo ed il South Side, come sempre, è il punto più basso di questo abisso.

Fra la 59esima e Praire, nel bel mezzo del quartiere, c’è una fatiscente casa che sembra piazzata lì per caso e tenuta su’ da un miracolo. Una donna dorme riversa su di un vecchio materasso bucato; il suo nome è Jolinda.

È una tossicodipendente, si fa di eroina ed il suo unico scopo nella vita è trovare il modo di procurarsi il prossimo buco.

È anche una mamma: ha due figli. La femmina, primogenita, si chiama Tragil. Il figlio, più piccolo, si chiama Dwyane come suo padre, militare di professione, altri due figli avuti anni prima da un precedente matrimonio. Lo stesso padre, Dwyane Senior, che quattro mesi dopo la nascita del piccolo lascia casa e famiglia, a causa di un inevitabile divorzio.

Jolinda ottiene l’affidamento completo, ma la separazione tira fuori il peggio da lei. Eroina, ovviamente. E poi cocaina e alcool. Arriva al punto in cui dorme in edifici abbandonati e non riesce più a sostenere alcuna conversazione con i figli. Alcuni minuti è cosciente, in altri è talmente rinchiusa in un baratro da non sembrare neanche in vita.

“Ogni giorno mi facevo di eroina.”

Dwyane è piccolo, piccolissimo. Ha paura. La aspetta fino alle 4 del mattino sveglio e, non vedendola tornare, piange e si dispera. È un bambino ma conosce già lo sgomento. È solo un piccolo bambino, ma preoccupato come un adulto.

Nonostante tutto, però, rimane sempre seduto sotto quella specie di portico davanti casa, ad aspettare la mamma. Sa che tornerà. Vuole pensare che lo farà, ancora una volta.

“Vedevo gli aghi in casa. Vedevo un sacco di cose che neanche mia madre sapeva vedessi”. 

Tragil, la sorella, si prende cura di Dwyane. Lo veste al mattino, lo porta a scuola, lo aiuta, lo supporta, lo consola. Gli fa da mamma.

Il piccolo ha solo sei anni quando vede per la prima volta la polizia irrompere in casa a “pistole spianate”, come nei film più cruenti.

Sta guardando i cartoni, è il più vicino alla porta di ingresso ed è il primo che i poliziotti vedono. È anche quello a cui puntano impietosi una pistola alla nuca, mentre gli urlano di dirgli subito dove fosse sua madre. È spaventato. Non sa che fare. Non capisce chi rappresenta il bene e chi il male. Chi deve tradire. Che cosa deve dire.

Ha solo sei anni quando vede, per la prima volta, la polizia trascinare via sua madre.

Ogni weekend Tragil accompagna Dwyane dal papà. Il piccolo gioca con il suo fratellastro maggiore Demetrius, uno dei due figli che Dwyane Senior aveva già avuto dalla sua prima compagna. 

Due anni dopo le cose non sono ancora cambiate. Il nuovo decennio sembra arrivato senza far rumore, nei sobborghi della Windy City.

Jolinda, Tragil e Dwyane vivono pochissimi buoni momenti, circoscritti da situazioni così buie da non lasciar immaginare nessuno spiraglio di luce.

La vita è immobile in tutto il suo soffocato grido di disperazione, fino al momento in cui Tragil compie uno di quei gesti così lucidi e coraggiosi che pochi esseri umani avrebbero potuto compiere, soprattutto a quell’età: prende Dwyane e lo carica in un autobus portandolo dal padre, come ogni weekend. Appena arrivano, il fratellastro di Dwyane gli tira una palla da basket: il loro rituale. Non c’è bisogno di dirsi nulla, si corre al campo. Mentre si allontanano Tragil gli grida apprensiva quello che ripete tutti i weekend: “Vengo a prenderti più tardi!.”

Tragil non tornerà: Sale sull’autobus, ricaccia indietro le lacrime, sorride. Sa di aver fatto la scelta giusta per il fratellino. Forse, con quel gesto, gli ha salvato la vita.

Passano i giorni e mano a mano Dwyane si rende conto che sua sorella non tornerà a prenderlo. Forse, non vedrà mai più né lei, né sua madre.

Si fa forza, è piccolo ma sa che non deve piangere. Sa adattarsi. Deve fare in modo di non creare problemi e darsi da fare.

Nel frattempo Jolinda va sempre più giù. Attanagliata in un inferno che da sola si è creata e che, sempre da sola, non riesce a sconfiggere.

Non le importa più di nulla. Diviene una tester, ovvero una di quelle persone che assaggiano le nuove partite di droga prima ancora che vengano distribuite. Un “lavoro” che potrebbe costarle la vita da un momento all’altro. Come quella volta in cui le danno LSD da iniettarsi endovena. Quando l’ambulanza corre a sirene spianate verso il primo ospedale la sua vita è appesa ad un filo.

Ne uscirà quasi per miracolo per poi, da lì a poco, finire dentro. Sembra inevitabile, a pensarci bene. Stavolta la beccano mentre spaccia, le trovano una borsa piena zeppa di crack. Non pare essere una semplice “vacanza” (come da gergo dei bassifondi) ma una lunga, lunghissima permanenza.

Dwyane, accompagnato dal padre, va ogni tanto a trovarla in prigione, al carcere di Cook County. La prima visita resterà per sempre il giorno più difficile per quel ragazzino che finora ne ha viste tante, ma non si è mai trovato costretto a parlare con la madre da dietro un vetro, con una cornetta del telefono in mano, non potendola neanche toccare. Costretto a vederla così tanto fragile, in una così brutta condizione.

Inizia a dedicarsi completamente alla pallacanestro, mettendoci da subito tutto sé stesso. È il suo sport preferito, la sua costante. 

Come praticamente ogni persona, soprattutto a Chicago, non vede l’ora di piazzarsi ogni sera davanti alla TV ed ammirare le gesta dell’uomo che lo fa sognare ad occhi aperti: Michael Jordan. Lo studia in ogni suo movimento. È incantato da quell’atleta che ha colorato ed acceso di speranza un’intera, dannatissima città.

1997

L’ormai quindicenne Dwyane sta compiendo quell’importante crescita che da bambino lo sta accompagnando verso il mondo adulto, complice anche un’educazione ferrea da parte del padre. Troppo ferrea forse, l’esatto opposto della situazione di assoluto degrado vissuta con la mamma.

È al suo secondo anno di frequentazione al Richards High School di Oak Lawn, nella periferia di Chicago. La stessa scuola che sta frequentando il suo fratellastro Demetrius McDaniel, divenuto intanto capitano dei Bulldogs.

Il giovanissimo Dwyane, l’anno prima, era entrato nella squadra  dell’istituto con grandi aspettative: sognava di diventare la prossima stella della squadra.

Appena iniziato il primo anno si era invece accorto, con grande rammarico, che i paragoni con suo fratello erano sfibranti.

Il giovane Wade aveva bisogno di trovare un posto nel mondo, una propria identità.

Si scopre così essere (o meglio, decide così di essere) più propenso a perseguire la sua carriera sportiva nella palla ovale, piuttosto che in quella a spicchi. Ha grandi doti atletiche e viene da subito apprezzato per il suo talento da ricevitore. Si ritrova a suo agio, dentro le sue imbottiture e nel suo caschetto. S’immagina irriconoscibile, mentre corre verso la meta schivando ostacoli ed impattando addosso al mondo intero.

In fondo, è così da sempre.

Durante quei mesi Jolinda scappa dalla libertà vigilata, diventa una fuggitiva.

Quando Dwyane riceve la notizia non è affatto sorpreso. Capisce che per molto tempo non avrà sue notizie, forse non le avrà più. Nel suo più profondo e recondito essere, prega soltanto di non dover apprendere la notizia della sua morte.

L’adolescente si carica però anche quel peso sulle spalle, decide che è giunto il momento di prendersi quello che davvero vuole: al contrario di sua madre, lui non deve più scappare. Da nessuno, soprattutto da sé stesso.

Sente il bisogno di riprendere la sua strada: quella della pallacanestro. Si presenta di nuovo al cospetto di coach Fitzgerald, che lo riaccoglie a braccia aperte, conscio già da prima di tutto il suo potenziale.

Quell’anno il giovanissimo Wade chiude la stagione con una media di 20.7 punti e 7.6 rimbalzi a partita.

L’anno successivo? 27+11.

La vita può continuare a colpirlo duro. lui sa che restituirà ogni colpo. Sempre più forte. E ancora di più.

2002

Come a volte succede, la fede accende una luce. Se si incontra poi una persona che tiene alta la fiamma e ti spinge a credere nel cambiamento, tu dai tutto te stesso per spingerti verso un nuovo orizzonte.

È quello che accade improvvisamente a Jolinda, che grazie all’empatia e alle capacità oratorie di un Pastore, si trova a leggere i passaggi della Bibbia e a riflettere molto.

“Having a form of godliness but denying its power”.  Funziona. Qualcosa finalmente scatta, nella testa e nell’anima di questa donna. Si sente toccata da qualcosa che non riesce neanche a spiegare.

Passa meno di una settimana da quella folgorazione e Jolinda decide di smettere con tutta quella merda. Giura di riprendersi la sua vita. Promette di non drogarsi mai più.

Nel frattempo, Dwyane è un Sophomore a Marquette University. Uscito dall’High School non aveva molte offerte: il suo profilo sportivo era eccelso, ma quello scolastico presentava dei brutti voti e non una spiccata propensione allo studio. Optò quindi per il Wisconsin, promettendo di raddrizzare prima possibile la sua rendita scolastica. È appunto al secondo anno e si vedono i primi lampi del Flash che sarà.

La notte di Natale di quell’anno, quando Dwyane torna a casa della madre la rivede dopo tanti anni. La trova lì ad aspettarlo, la vede sobria, per la prima volta nella sua vita. Stabile. Senza traccia di droghe o alcool nel corpo.

È il Natale più bello della sua vita, ma non dura neanche il tempo della cena. Jolinda confessa al figlio di essere ancora una fuggitiva, spiega che con la fede in Dio ha voglia di riprendersi in mano la sua vita, ma per farlo deve tornare in prigione, a scontare tutti gli errori del passato.

È un pugno in faccia, per quel ragazzo che si stava facendo il culo in palestra ogni giorno della sua vita e che, per la prima volta, vedeva sua madre come ogni bambino vorrebbe vedere la propria: sana.

Piange. Avrebbe voglia di spaccare tutto ma non lo fa. La abbraccia, torna all’Università e prova a rimanere concentrato, focalizzato su quel che è giusto fare.

Questa volta non sembra possibile. Non ci riesce più.

Per la prima volta si sente spezzato in due. Molla. Emotivamente, fisicamente, è un ragazzino che rivede quell’immagine di sua madre dietro un vetro, con una cornetta in mano. 

Tom Crean, il suo allenatore, non può sapere cosa passi per la testa di Wade, ma giudica quello che vede: ultimamente si sta allenando di merda e si sente costretto a cacciarlo dal campo.

Il ragazzo, come risposta, prende il pallone fra le braccia, lo tira via con tutta la forza che ha in corpo ed esce dal campo. Coach Crean lo segue. Lo trova nel corridoio che porta agli spogliatoi, piegato su sé stesso, che piange disperato.

L’allenatore, dopo un lungo confronto, riesce a far capire a Dwyane che quella può essere la svolta della vita per sua madre. Potrebbe finalmente essere il momento in cui può riprendere davvero in mano il proprio destino, gettandosi tutto alle spalle: la droga e la giustizia.

Rinvigorito da quelle parole e dal suo incredibile carattere, Dwyane decide di reagire ancora una volta, di cercare di guardare la cosa sotto la prospettiva più giusta in quel momento. Scrive una lettera alla mamma. La chiama “My Hero”.  Si definisce consapevole della fatica che sta facendo, sicuro che il percorso sia quello giusto. La sprona dicendosi conscio del coraggio che può volerci per affrontare quella strada e la invita a non mollare.

È il 2003 quando Jolinda viene rilasciata dalla prigione. Tre giorni dopo è sugli spalti di una palestra, ad assistere all’ultima partita sul campo della Marquette University di quel fenomeno con la maglia numero 3.

Dwyane domina il secondo tempo. Inarrestabile. Il telecronista non sa più come chiamarlo, ma sa una cosa:

“D-Wade making every big play, hitting every big shot for Marquette”.

Marquette vince la Midwest Regional grazie ad un’incredibile prestazione di Wade, che registra 29 punti, 11 rimbalzi ed altrettanti assist. Arriva fino alle Final Four, aggrappata alle spalle di quel formidabile ragazzo.

Non serve il quarto anno di College, che nulla potrebbe aggiungere a quello che ha dimostrato di saper dare. Il numero 3 è pronto per ‘The Big Stage’, la cui porta d’ingresso si apre con la notte del Draft del 2003.

Dwyane Wade, from Marquette University

La nottata si preannuncia elettrizzante. Uno dei migliori Draft della storia.

Miami ha la pallina numero 5 della lotteria. Tre delle prime quattro scelte sembrano assegnate, con Carmelo Anthony, Chris Bosh e ovviamente LeBron James, scontata prima chiamata dei Cavs.

I Pistons, alla due, vanno con Darko Milicic, all’epoca promettente lungo europeo. Ancora oggi a pensare che Melo sarebbe potuto approdare nei Bad Boys 2.0 scendono brividi lungo la schiena, ma il destino ha voluto diversamente.

Pat Riley è al telefono, come ogni giorno nell’ultimo mese. Miami ha disperatamente bisogno di un centro, visto che Alonzo Mourning ha appena lasciato Miami per approdare in New Jersey. Sfumato, come prevedibile, Chris Bosh alla quarta chiamata, rimane un lungo da prendere: Chris Kaman. È un giocatore solido che potrebbe diventare un buon ‘interior scorer’ ed un buon rimbalzista. Proprio quello che manca ai suoi Heat, orfani di Mourning. La scelta numero 5 però è anche alta, e Riley sa che va sfruttata nel migliore dei modi. Si consulta incessantemente con i suoi scout, finchè non sente le parole magiche: “Senti, Pat. Kaman diventerà un buon giocatore, solido, un buon rimbalzista, un giocatore utile alla causa.”

Riley: “…ma?”

“Ma se vuoi un campione, la tua nuova stella, allora prendi il ragazzo da Marquette”.

Senza Zo non mancavano “solo” punti e rimbalzi: mancava il leader nello spogliatoio. Trascinare emotivamente gli altri è un talento (forse il più difficile talento da trovare) perché se è vero che i punti li sanno fare in tanti, è lo spessore umano che fa il Campione.

Pat sa che questa scelta, se sbagliata, può condannare gli Heat ad un oblio molto lungo, ma si fida delle palpitazioni che gli sono venute vedendo giocare Marquette e della voce dall’altra parte del telefono. Sceglie il ragazzo da Chi-Raq.

“With the fifth pick in the 2003 NBA Draft, the Miami Heat select.. Dwyane Wade, from Marquette University.”

La carriera di Wade è scolpita nelle menti e nei cuori di chi l’NBA l’ha vissuta in questi ultimi 17 anni. Esistono singole immagini, singole azioni che non possono non venire in mente, quando si parla di Flash. Sono frammenti che ogni volta che scorrono sullo schermo ti fanno quasi venir voglia di gridare. 

Wade To James

Transizione a due degli Heat, guida il #3. I due difensori collassano su di lui, che lascia la palla quasi casualmente battere a terra e deviare leggermente verso destra. LeBron la raccoglie e si alza in aria. Nell’istante stesso in cui LeBron stacca da terra, Dwyane apre le braccia dandogli le spalle e continuando a correre, in una delle foto che forse meglio hanno raccontato l’NBA degli anni 2000. Un’istantanea che coglie più punti: la potenza dell’uomo da Akron, il suo legame con Flash, la capacità di Wade di saper cogliere l’attimo. È come una cartolina che ricorda al mondo di quando quei due si sono decisi di unire le proprie forze, segnando un momento cardine dell’NBA moderna. 

Wade over Varejao

LeBron (qui ancora in maglia Cavaliers) punta l’area degli Heat e attacca il ferro per la schiacciata.

Jermaine O’Neal salta altissimo, verticale, e lo stoppa. La palla cade in mezzo al pitturato ed è preda del #3 di Miami che parte in volata. La difesa dei Cavs non fa in tempo a schierarsi correttamente: la transizione difensiva è molto pigra e Beasley corre poco avanti a Wade andando ad occupare l’angolo. Dwyane punta dritto verso il centro dell’area dei Cavs, dove trova Anderson Varejao. Superata la linea del tiro libero raccoglie il palleggio e va in terzo tempo. Varejao, come O’Neal pochi istanti prima, salta verticale e altissimo. Flash, con tutta la naturalezza del mondo, salta molto più su. È uno dei poster più iconici degli ultimi vent’anni. Una schiacciata terrificante, non esiste un altro aggettivo per descriverla. Varejao cade a terra e si chiude letteralmente a libretto con la schiena poggiata sulla base del canestro e i piedi che, per inerzia della caduta, vanno a chiudere il corpo. 

Wade over Perkins

Il parquet è sempre lo stesso, quello dell’American Airlines Arena. Il punteggio è 41-30 per OKC. La palla staziona al gomito sinistro nelle mani incerte di Juwan Howard. LeBron esce velocemente per ricevere in punta ma Howard gira sul perno e serve Wade, in ala sinistra. Harden posiziona il corpo per non concedere il centro dell’area e Dwyane raccoglie quello che la difesa concede. Mette palla a terra andando verso l’angolo e puntando il canestro. Ibaka è pronto a chiuderlo per portarlo ulteriormente verso la linea di fondo, ma Dwyane ha in mente qualcosa di diverso: esegue una spin move in una frazione di secondo e quando rimette i piedi a canestro carica il salto. Perkins arriva in aiuto ad Ibaka, nel momento in cui Wade si sta alzando con la palla in mano. Perkins va su, verticale, il #3 si inarca, allontana la palla dalle mani di Perkins e affonda una schiacciata atomica. È un punto esclamativo che dice tanto della voglia che i nuovi Big Three hanno di dominare l’NBA. Soprattutto, la schiacciata non è la cosa più bella dell’azione: la spin move di Wade è qualcosa di così potente e al tempo stesso così leggero da lasciare senza fiato. Ogni particella del suo corpo si muove per raccogliere i piedi dopo la virata e saltare. Ha già visto cosa farà Perkins, cosa avrebbe fatto Ibaka e come avrebbe difeso Harden. https://www.youtube.com/watch?v=JUbQ2FMtaFINon solo highlights, nella carriera di Flash, ma anche partite ‘for the ages’. Non per caso e non senza fatica, soltanto tre: 

New Orleans Hornets @ Miami, Playoff 2004 Game 1

L’anno è il 2004. Playoff NBA, primo turno, gara 1.

È la prima gara di playoff della carriera di Wade. Mancano 11 secondi al termine, la partita è impattata dopo una battaglia di 47 minuti e 49 secondi sul 79 pari. Dal timeout Miami esce con una rimessa oltre la metà campo e la palla finisce al rookie da Marquette, in quel momento top scorer della serata con 19 punti. Nel momento in cui la palla finisce nelle mani di Wade, in telecronaca si sente “lasciano la palla in mano al rookie”. Il rookie ha davanti Baron Davis, in corretta posizione difensiva, basso sulle gambe. Wade è isolato top of the key, all’altezza del logo. Parte con un primo passo verso destra, uno scatto felino. Il Barone risponde presente, ma quando il #3 fa un crossover a velocità supersonica, rimane piantato e perde un passo. Dwyane punta il centro dell’area, Davis lo insegue e lo affianca. Arresto di potenza e teardrop che neanche sfiora la retina. Entra con la leggerezza che solo i Grandi sanno dare. È la prima gara di Playoff per Wade, e non segna un game-winner solo perché il cronometro non segna esattamente zero secondi, ma è questione di pochi istanti. Quel canestro cambia la storia di Wade, e della Lega. Anche per quel canestro, per quella sfrontatezza, per quel talento, pochi mesi dopo a Miami arriva The Big Diesel, Shaquille O’Neal che dopo Kobe Bryant decide di andare a giocare con un’altra shooting guard di assoluto livello. Poco conta sia solo al primo anno.
Non sapevamo chi avrebbe avuto il pallone. Stan ha disegnato la giocata e ha detto: “Dwyane, portaci lì”

Caron Butler
Compagno di squadra
https://www.youtube.com/watch?v=S-Op-CdfiOI

Dallas @ Miami, NBA Finals 2006, Game 3

Passano circa 24 mesi. Qualcosa più. Il palcoscenico sono sempre i Playoff NBA, ma stavolta sono le Finals. All’American Airlines Arena si gioca la decisiva gara 3. Non è decisiva in senso stretto del termine, ma Dallas è avanti 2-0 e se dovesse portare a casa la terza, arriverebbero anche i titoli di coda. La bravissima Lisa Saunders prima della partita ricorda a Dwyane il 6 su 19 dal campo, una partita difficile. “I’m a rhythm player, I’m trying to get back to my rhythm..”

Dallas però macina gioco e difende in maniera splendida, tanto da iniziare il quarto periodo con nove punti di margine, 77-68. Wade inizia il quarto con una tripla dall’angolo sinistro, la prima della partita. Ne segna due baciando il tabellone con un tiro morbidissimo cui alza l’abituale parabola, per evitare il recupero di Nowitzki. Riceve in angolo sinistro, attacca la linea di fondo, va in terzo tempo e segna con fallo. Prova a trascinare con sé Miami, ma è durissima e Dallas continua a riscappare, continua ad avvicinarsi alla vittoria che potrebbe essere decisiva. A 4:24 dal termine gli Heat continuano ad essere sotto di sette, e Wade continua a martellare la retina rifiutando la sconfitta. Jumper dal gomito con Devin Harris che non può far nulla per impedire l’ennesimo canestro del prodotto di Marquette. Il #3 accorcia a sole tre lunghezze il vantaggio di Dallas, attaccando ancora una volta Josh Howard, sempre partendo dal lato sinistro del campo, sempre attaccando con la mano debole. La difesa di Riley finalmente regge, e Dwyane ha l’occasione di portare i suoi a meno due. Un long two, punendo la scelta del coach dei Mavs di passare dietro al blocco di Shaq. Wade non esita: carica il tiro, piega le gambe, solo rete. Ci mette il rimbalzo e i liberi che chiudono la contesa. È la vittoria che lancia Miami alla conquista dell’anello e Dwyane alla conquista del Bill Russell Trophy: MVP delle Finals. Neanche Kobe, con Shaq, l’aveva vinto.  

Prima della partita aveva dichiarato di voler trovare ritmo.

42 in gara 3.

36 in gara 4.

43 in una meravigliosa, tiratissima e decisa per un solo punto, gara 5.

36 nella decisiva gara 6. 

Il ragazzo il ritmo l’aveva trovato.

Quello che è successo è che un fottuto tornado si è abbattuto sulla partita nei sei minuti finali. E noi abbiamo vinto.

Erik Spoelstra
Ex AssistenteAllenatore

Chicago @ Miami, Regular Season 2009

Qui la posta in gioco è molto, molto, molto più bassa. È una gara di Regular Season, ma contro la “sua” Chicago per Dwyane la partita non è MAI di poca importanza. La partita si trascina fino al secondo overtime. Chicago ha palla in mano con 11 secondi e spicci al termine. Sale a ricevere il figlio del vento, Derrick Rose. È Salmons, però, a prendersi la palla decisiva. Fa scorrere il tempo. Quando mancano 5 secondi parte: due palleggi andando a destra, poi il dietro schiena. Il diretto difensore quasi va per terra, ma c’è un uomo che si è staccato dalla marcatura di Rose: è Dwyane. Nel momento in cui Salmons va dietro schiena, è pronto. Gli strappa la palla dalle mani e si invola: mancano 3.1 secondi sul cronometro e Wade, con una partita spaziale e due overtime sulle spalle ha da percorrere tutto il campo. Impossibile.

Lo sa persino lui, che non ce la può fare, ma questo non vuol dire non possa far canestro lo stesso. Tira un floater dopo il terzo tempo. Da tre punti. La retina si muove, la sirena suona. È finita, ha vinto Miami. Dwyane, in un gesto diventato quasi un trademark, sale in piedi sul tavolo di commento. Si rivolge al pubblico impazzito, indica il parquet con le dita e urla: ”This is my home”. 

Wade, forever

Quando Pat Riley ha deciso di puntare sul ragazzo di Marquette non è andato a prendere i punti e i rimbalzi “sicuri” di Kaman. È andato a scegliere un ragazzo che avesse le spalle larghe. Un ragazzo che poteva diventare uomo, indossando una maglia in the right way, nel modo giusto. Dentro e fuori dal campo.

Ha cercato una stella, ha trovato qualcosa di più.

Dwyane è stato uno dei giocatori simbolo degli anni 2000 e una delle guardie più forti di sempre ad aver mai giocato. C’è chi lo mette subito dopo Michael e Kobe. Non sono in pochi a farlo ed è probabile che non sbaglino di molto.

Dwyane ha dedicato la sua vita sportiva alla franchigia dei Miami Heat, incarnandone i valori.

Nel 2016 è andato via per tornare a casa sua, in quella Chicago che gli ha causato tante notti insonni da piccolo, che lo ha fatto star male ma lo ha forgiato nell’animo, facendolo diventare un uomo capace di caricarsi sulle spalle ogni peso della propria esistenza.

Ha anche tentato la via di Cleveland per riconciliarsi al suo grande amico LeBron, ma esisteva un solo posto dove nella sua lunga permanenza NBA si fosse mai sentito veramente a casa, e quel posto è a South Beach.

Sua moglie Gabrielle Union che atterra di nuovo a Miami insieme a lui, rimane una delle più belle immagini della carriera di Flash. Una carriera in cui l’amore, quello vero, è stato uno soltanto.

Quell’amore è stato corrisposto dal pubblico, dalla proprietà, da Riley e da Spoelstra.

Quell’amore ha portato 3 titoli alla città.

Quell’amore, quel grande amore, stanotte si sugella con un patto, che è il “per sempre” più bello che ci possa essere fra un giocatore ed una franchigia.

La maglia di quel bambino che aspettava la mamma ritornare a casa, di quel ragazzo “spezzato” a Marquette; la maglia di quell’uomo con quel concentrato di rabbia, gioia, istinto, talento e atletismo, viene appesa sul soffitto dell’arena che più di tutte ha vissuto le sue gesta.

Alla Triple A Arena la maglia numero 3 verrà appesa lì, in alto, perché tutti possano guardarla, trarne ispirazione e perché nessun altro la possa più indossare.  Perché lì è passato un lampo così grande quanto irripetibile.

Quando racconterete la storia di Wade, ditelo a chiunque: lui veniva dal nulla, era destinato a nulla. È scorso veloce sopra a tutti, lasciando una scia indelebile. Proprio come un fulmine.

A Flash out of nowhere.

Simone Severi

Classe (poca) 1985. Papà, malato di pallacanestro, dirigente di una squadra di Prima Divisione. Mischio parole per necessità personale, perchè nel bene e nel male ci portiamo dentro qualcosa, e dentro c’è una storia da raccontare

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