Lo scenario è quello delle grandi occasioni. Anzi, togliete pure il plurale: è la grande occasione, quella in cui nulla è lasciato al caso. Ogni singola inquadratura, ogni dettaglio negli abiti di scena, ogni impercettibile movimento. È la scena finale, quella che conclude la pellicola, prima che quest’ultima possa, incrociando le dita, entrare nell’immaginario collettivo; sul set, tutti coloro che hanno plasmato l’opera non vogliono perdersi il suo capitolo conclusivo. C’è il regista, che in questi casi è molto probabile che si chiami Sergio (Leone, Corbucci e Sollimma docet), gli sceneggiatori, i compositori; insomma, tutto il cast, tranne il protagonista. Se percepite un’atmosfera in cui la tensione possa essere tagliata da un grissino, avete colto lo scenario di cui sopra: l’ennesimo spaghetti western sta per essere lanciato sul mercato.
Fateci caso: qual è il movimento per antonomasia di un Clint Eastwood, di un Bud Spencer oppure che so, di un Franco Nero? Semplice: sguardo fisso negli occhi dell’interlocutore e stacco d’inquadratura all’altezza del bacino, per cogliere un’istantanea tanto fulminea quanto immortale. Con la stessa velocità di un battito d’ali di una farfalla, pistola fuori dalla cosiddetta fondina “Walk and Draw”, con un rivestimento in pelle volto a mascherare una consistente presenza di metallo, probabilmente un’invenzione cinematografica. E poi, bang.

Quando nei primi piccoli cinema di Baton Rouge iniziano a girare le prime pellicole di questo genere all’italiana, con “Django” e “Il buono, il brutto, il cattivo“ a fare da apripista, un ragazzo del giugno ’47 è nel bel mezzo della sua carriera universitaria, nei Tigers di Louisiana State. Non immaginatevi, però, la storia del classico ragazzo americano, che, una volta giunta l’ora di mettere piede in un college, saluta temporaneamente la famiglia per entrare in un vero e proprio nuovo mondo. No, perché quel giovane cestista ha ben poco di ordinario.
Papà
La nostra storia necessita di uno step-back all’inizio del secolo, ad una traversata oceanica di distanza. Sono gli Stati Uniti dei primi anni del ‘900, e dall’Europa giungono milioni e milioni di famiglie alla disperata ricerca del tanto agognato sogno americano: partono su navi grandi come piccole frazioni cittadine, dalla maggior parte delle località che si affacciano sul mare. La Serbia di sbocchi sul mare non ne ha, ma contribuisce anch’essa alla proliferazione delle future generazioni a stelle e strisce; partono, ad esempio, i Maravich, attratti dalle miniere della Pennsylvania, dove serve, in fretta, forza lavoro.
Si stanziano nella contea di Beaver, per la precisione in un agglomerato urbano di poco più di diecimila anime, Aliquippa. Qui, qualche anno dopo l’attraversamento dell’Atlantico direzione East Coast, nasce Petar, serbo nel sangue ma americano di prima generazione; il problema, però, sta nelle sue origini. Piuttosto che una difficoltà d’integrazione, quello del farsi accettare è un suo desiderio innato, seppur non del tutto necessario: così, giunti gli anni della Seconda Guerra Mondiale, si arruola nell’aviazione americana, diventando un Top Gun. Quando torna dai combattimenti ad alta quota, è spavaldo, coraggioso e sicuro di sé, ancor più di quanto lo fosse prima di effettuare il decollo.
Incontra una giovane serba, che ha sposato un italiano e dunque di cognome fa Santini; è giovane, sì, ma è già vedova, perché suo marito è morto nella stessa guerra che ha combattuto Petar. È amore a prima vista, ma lei ha bisogno di una figura al suo fianco: non può sopportare la perdita di un altro cognome. “Va bene Jelena, non sarò un pilota d’aerei”: dev’essere andata più o meno così, perché la spavalderia era crollata come un castello di carte davanti agli occhi di quell’interlocutrice. “Mi piace il basket. Allenerò”.
Sì, allenerà.

DNA
In una domenica di fine giugno, poco tempo dopo l’incontro con Jelena, il grande passo, il canestro più importante della carriera di quell’amante della pallacanestro. Nasce un figlio, un patrimonio da coltivare e rendere ancor più inestimabile di quanto non fosse già al primo respiro nella sala parto dell’ospedale di Aliquippa: è la seconda generazione, ma il DNA continua a parlare serbo. Lo chiamano Pete, americanizzazione del nome di papà, anche se l’ex pilota nei cieli sopra il Pacifico era universalmente conosciuto come “Press”: da piccolo consegnava i giornali, toccava aspettarselo. Il ragazzo nasce praticamente con gli spicchi in mano, e sapete che non stiamo parlando di un agrume, nonostante il colore sia effettivamente simile. Papà lo vuole plasmare in quello che non è mai riuscito a diventare, ossia un giocatore d’alto livello; serve dedizione, spirito di sacrificio e, soprattutto, passione. Fortunatamente, per preparare la ricetta perfetta, al piccolo Pete non manca nessuno dei tre ingredienti.

In casa, il palleggio della sfera è l’unico rumore di cui non ci si può lamentare. Nel sottoscala, in giardino, lungo il viale: Pete palleggia, ovunque. Inutile sottolinearlo, a nemmeno 10 anni possiede già un repertorio cestistico d’annata: il suo ball-handling strappa un sorriso a tutta la città, dal proprietario del market sotto casa ai giocatori allenati da papà ad Aliquippa High School. Attenzione, queste figure non sono casuali.
Il primo è costretto a regalargli qualche dollaro in viveri, dopo che per un’ora il piccolo Maravich ha fatto danzare la palla sull’indice della mano destra; i secondi, invece, dopo essere tornati a mezzanotte delle trasferte in pullman, vedono le luci della palestra ancora accese: indovinate chi c’è dentro a tirare? Esatto. Inoltre, dopo il passaggio del padre sulla panchina di Clemson University, in South Carolina, la voce inizia a spargersi: il ragazzino ha la stoffa del campione, ha le doti di un afroamericano con la quantità di melanina di un bianco. In pratica, un componente degli Harlem Globetrotters che sarebbe potuto nascere a Belgrado.
La prova del nove arriva dopo la visita a casa Maravich di un caro amico di Petar. Allena anch’esso, ma sulla costa opposta: è John Wooden, memorabile volto di University of California, Los Angeles.
Pete, fai vedere che sai fare a Coach Wooden.
Detto, fatto: salta la corda come un pugile, ma non c’è né la corda né un quadrato in cui combattere; in compenso, c’è il pallone, che passa dietro le gambe, davanti e di lato; probabilmente, se fosse stato in giornata, avrebbe anche potuto farlo uscire dal cilindro, sotto forma di coniglio. Wooden non crede ai suoi occhi, ma ha già individuato il prossimo diamante grezzo del basket americano: viene da lontano, eppure era così vicino.
Tigers

Ed eccoci qui, ai film western trasmessi a Baton Rouge, mentre le luci della palestra rimanevano accese anche a tarda notte, come nell’infanzia di Aliquippa. Il tempo dei giochi è finito, perché dai palleggi in giardino sotto il temporale si passa alle sfide sul campo, dopo le lezioni universitarie del mattino. Sono in due, come sempre: padre e figlio, legati da un filo sottile che amalgama le tradizioni del passato alla voglia di far propri il presente ed il futuro. Se Petar consiglia come muovere la bacchetta, Pete assume il ruolo del direttore d’orchestra, nel palcoscenico del Deaf Dome, l’arena universitaria che oggi prende il nome di “Pete Maravich Assembly Center”.
Ma la fondina, il “Walk and Draw”, il bang? Tutto prende forma negli allenamenti estenuanti dei primi anni di vita, ma viene plasmato definitivamente sul parquet universitario: è una delle meccaniche di tiro più particolari che siano mai state coniate nella storia del gioco, e l’artefice non poteva che essere Pete.
Diventa Pistol, perché il tempo d’esecuzione rimanda proprio all’estrazione dell’arma nei film ambientati nelle vaste praterie americane, tutte silenzio e aridità. Un bang dietro l’altro, con i palazzetti che si riempiono e coloro che si potevano permettere un televisore che pregavano affinché la gara settimanale di NCAA trasmessa sul piccolo schermo vedesse in campo i Tigers di LSU, capitanati dal 23 con il ciuffo.
La pietra miliare di quell’esperienza in Louisiana non può che essere la sfida ai Bulldogs della University of Georgia, ad Athens. È l’8 marzo 1969 e si gioca allo Stegeman Coliseum, una trasferta indubbiamente non facile; LSU è sotto di 15 ad una decina di minuti dalla sirena, così Pete si mette in proprio: segna 24 degli ultimi 29 punti della squadra, mandando la gara ai supplementari. Ah, la maggior parte di quei canestri erano dagli 8/10 metri, perciò con il regolamento odierno dovreste aumentare un po’ il conteggio.
L’atmosfera è surreale, perché il pubblico sugli spalti tifa per entrambe le squadre sul parquet: per i beniamini di Athens, com’è giusto che sia, e per quell’avversario ipnotico, ammaliante. I padroni di casa sono in vantaggio e vorrebbero far terminare la sfida con il pallone in mano, perché i 30 secondi per possesso non sono ancora stati inventati; dalle tribune piovono fischi ed insulti: non vogliono festeggiare, desiderano solamente vedere una partita combattuta. Alla fine, a pochi secondi dal termine, Georgia tenta l’allungo, ma il pallone sbatte contro il ferro e finisce nelle mani del figlio di Petar: buzzer beater, secondo overtime.
La gara continua, ma gli ospiti prendono possesso del pallino del gioco: i fischi si tramutano in epiteti d’adulazione per il playmaker che tutti vorrebbero con sé, che mette la ciliegina sulla torta con un gancio cielo da 16 metri. Il tango sulla retina non fa bang, ma Pistol ha sparato un’altra volta.

L’inizio della fine
La scelta è complessa, perché ciascuna delle parti offre garanzie e successi. D’altronde, il ragazzo non ha bisogno di presentazioni: un comparto tecnico che mette i brividi, fantasia, classe e 44,2 punti di media, senza il tiro da tre punti. Da una parte l’ABA, con i Carolina Cougars che mettono sul piatto 5 milioni di dollari cash ed un ruolo da protagonista in ben tre film prodotti da Universal; l’NBA, però, l’ha sempre affascinato: decide che vestirà la 44 degli Atlanta Hawks.

Il vetro in cui si specchia, però, inizia a mostrare le prime crepe. Gli viene diagnosticata la paralisi di Bell, risultante da una disfunzione del nervo facciale, che lo rende incapace di controllare i muscoli del viso dal lato destro; non riesce a mangiare per settimane, ma in campo è una delizia. Poi, un altro colpo: mamma Jelena muore suicida, arrivata all’ultima tappa nel giro dell’alcol in cui si era sempre trovata al comando.
Lo trattano bene ad Atlanta, tant’è che due delle cinque apparizioni all’All-Star Game le registra in maglia Hawks, rispettivamente nel ’72/’73 e nella stagione successiva; il direttore d’orchestra continua a dirigere la bacchetta in Georgia, ma sa che ha bisogno dell’aria di casa. Da anni, ormai, vive sulle sponde del Lago Pontchartrain, a New Orleans, nella Louisiana che tanto l’ha coccolato negli anni più importanti della sua carriera cestistica, quelli della maturazione definitiva; papà è assistente scout ai Jazz, perciò un trasferimento è più facile del previsto. Forse, la realtà da cui si era tanto distaccato è riuscito a riacciuffarlo. Forse.
Ha un’ultima quiete prima della tempesta, nella sfida al Louisiana Superdome contro i New York Knicks di Walt Frazier, Earl Monroe e Phil Jackson. La partita, ovviamente, va in diretta anche nella Grande Mela, quindi Pete si sente più osservato del solito: vuole fare bella figura, insomma. Sì, le premesse vengono rispettate: 68 punti, con Frazier che non sa più dove girarsi per fermarlo.
La gara contro la compagine allenata da Red Holzman, però, non è l’unico squarcio di sole in una serie di annate che hanno visto fin troppi temporali. Dalla sua terza stagione a New Orleans, nel ’76/’77, la musica cambia per davvero: arrivano le ultime tre apparizioni all’All-Star Game, con numeri da capogiro, specialmente nelle prime due rotazioni terrestri: 31.1 punti e 5.4 assist di media nell’anno dei 68 ai Knicks, 27 e 6.7 in quella successiva.
Il declino è alle porte, ma a Pistol Pete sembra importare il giusto. Sono gli ultimi diamanti in un’ondata di fango, da cui il pistolero non riuscirà più a riemergere.
Si sbriciola il ginocchio dopo un passaggio in mezzo alle gambe di una quindicina di metri, compromettendo ulteriormente la sua integrità fisica, dopo che quella mentale era già stata persa per strada. Riesce a giocare una stagione (la sua ultima in NBA) insieme a Larry Bird. Ha lo smalto di una volta, come testimoniano i numeri: nonostante i 17′ di media a partita, in un 26 gare disputate, l’ultima versione di Maravich registra 11.5 punti medi a gara. Un lupo dal sangue slavo, che ha perso fin troppo pelo, riuscendo a mantenere il vizio.
Sostanzialmente, si tratta di uno dei più grandi “What if” nella storia dei Boston Celtics: quei due assieme, all’apice delle rispettive carriere, avrebbero potuto cavalcare l’onda del successo per decenni. Purtroppo, però, la storia di Pete Maravich incontra fin troppi condizionali.
L’ultimo capitolo del romanzo, però, si chiude con la stessa velocità d’esecuzione che caratterizzava il suo gioco. È malconcio, si avvicina a bizzarri culti come l’ufologia e la macrobiotica, digiuna per settimane ed il suo umore varia in base all’andamento delle azioni acquistate in borsa, dove ha investito tutti gli stipendi guadagnati sui parquet americani; decide, però, il 5 gennaio 1988, di concedere una particolare intervista a Pasadena, invitato da un giornalista nel ginnasio cittadino.
Tira, con il pallone che fatica ad entrare. Poi ha qualche minuto che riporta la DeLorean a Baton Rouge, con Pete che mostra una classe a dir poco innata. Si ferma per bere, lasciandosi andare in un “I feel great!”. Cade a terra, tramortito, con gli occhi fuori dalle orbite; l’autopsia rivela la totale assenza dell’arteria coronaria sinistra: era un bambino con le sembianze di un 40enne.
È il suono della sirena, il colpo della pistola arrivato con un secondo di ritardo. È l’ultimo palleggio di Pete Pistol Maravich, venuto al mondo e passato a miglior vita con la palla tra le mani.
