I got a bomb in my temple that is gonna explode
I got a .16 gauge buried
Under my clothes, I play
Once upon a time I could control myself
Once upon a time I could lose myself
Io ho un amico che ha scritto un sacco di roba che parla di basket e di musica grunge, e questo un po’ a volte mi frena dal fare lo stesso perché lui è veramente bravo. Dovreste leggerlo tutti. Però ci sono delle regole e ci sono delle eccezioni, e Shawn è indubbiamente una di queste eccezioni. Negli anni 90 c’era la musica grunge intesa non come reperto del passato ma come elemento del presente, chitarre graffianti e voci roche come elemento di rottura rispetto all’intossicazione da synth e vocoder degli ottanta appena trascorsi. Lungi da me dire che sia stato il periodo di più grande fermento musicale, ma era il mio periodo di grande fermento musicale, e inevitabilmente ne sono stato segnato. Anche nel basket avveniva una roba simile: meno showtime e più strong defense. E in tutto questo contesto, le NBA Finals del 1996 rappresentarono una sorta di apice creativo: da un lato gli UnbeataBulls di Jordan, Pippen, Rodman, Kukoc e Phil Jackson, dall’altra i SuperSonics di Payton, Kemp, Schrempf, Hawkins.

1996.
Il 1996 era l’anno dei Rage Against The Machine di “Bulls on Parade”, degli Smashing Pumpkins di “1979” in heavy rotation sulle TV che trasmettevano videoclip musicali a ciclo continuo: il grunge degli esordi stava diventando qualcosa di diverso, la pallacanestro stava diventando qualcosa di diverso, Shawn Kemp che doveva andare a Kentucky e non ci andò per una brutta storia di gioielli – forse – rubati, che doveva giocare spalle a canestro e fare a sportellate sotto le plance, metteva invece palla per terra e giocava attaccando il ferro in un modo che non si era quasi mai visto prima, per rapidità, atletismo, ferocia agonistica. Kemp era arrivato in NBA nel 1989, a neanche vent’anni, in un periodo storico in cui arrivarci “presto” significava solitamente uscire dopo tre anni di college. I Sonics si erano schiantati due volte nelle tre stagioni precedenti contro il muro dei Los Angeles Lakers di Magic, Worthy e Kareem, due 4-0 che non lasciavano spazio a molte interpretazioni. Il nucleo della squadra era composto da un realizzatore bestiale (Dale Ellis), una rising star della NBA (Xavier “X-Man” McDaniel), un terzo violino con licenza di improvvisare (Derrick McKey) e un’asse play-pivot che portava assist e rimbalzi (Nate McMillan e Michael Cage). Dalla panchina uscivano Sedale Threatt, giocatore che aveva avuto una maturazione tecnica piuttosto tardiva e che raccolse poi abbastanza degnamente il testimone di Magic Johnson quando lasciò i Sonics per i Lakers, l’altra guardia Quintin Dailey e il rookie Dana Barros, poi all-star a Phila, mortifero da oltre l’arco (40% nel suo anno da matricola, 41% in carriera). Una squadra costruita secondo i crismi dell’epoca, che aveva un disperato bisogno di un lungo atletico e in grado di dare un cambio di ritmo alle partite. Il rookle Kemp non era maturo a sufficienza a livello agonistico per esser pronto da subito, e tuttavia i suoi sprazzi di talento si poterono intravedere già nella stagione del debutto: era solo alla sua settima partita da professionista, non aveva ancora compiuto 20 anni quando, in un giorno di metà novembre del 1989, contro gli allora Washington Bullets mise in mostra il suo talento al mondo intero, scrivendo a referto 18 punti, 9 assist e 3 stoppate in soli 20 minuti sul parquet. Ma Kemp non è mai stato numeri, nel senso delle cifre statistiche. Kemp è stato grunge nel suo essere irriverente, fuori dagli schemi, energico e spettacolare come certi assoli della musica di quegli anni, che nasceva, guarda un po’, a Seattle.

Interludio.
Parlare di grunge e di Seattle per una persona nata nei late 70s è un abbinamento quasi scontato. Ma parlare di grunge non è solo Nirvana: dalla città di smeraldo venivano anche i Melvins, i Pearl Jam, i Soundgarden, gli Alice in Chains e un mucchio di altri gruppi. La cosa più figa che testimonia quanto il grunge fosse legato al basket è indubbiamente la faccenda che lega i Pearl Jam a Mookie Blaylock. Se non la sapete, questa è la versione breve. Il primo nome della band di Eddie Vedder e soci non era Pearl Jam ma “Mookie Blaylock”, all’epoca dei fatti promettente rookie dei New Jersey Nets. Quando la Epic Records gli fece notare che con un nome del genere magari ci sarebbero potuti essere dei problemi coi diritti di immagine del giocatore, loro cambiarono nome ma decisero che il disco d’esordio avrebbe avuto come titolo “ten”, dieci, come il numero di maglia di Blaylock.
Ah, i Pearl Jam c’entrano anche con una faccenda che riguarda Dennis Rodman, un pick up, il parcheggio del Palace of Auburn Hills e un fucile, ma non divaghiamo troppo.
Combattere battaglie in solitaria.
We chase misprinted lies
We face the path of time
And yet I fight
This battle all alone
Ci ho pensato un sacco a Kemp come giocatore, ed è ovvio che il fatto che un’intera generazione sia in un qualche modo legata a lui, è una cosa che trascende dai risultati sportivi. Tre volte secondo quintetto NBA, quattro partecipazioni alla gara delle schiacciate (un secondo posto), una finale NBA giocata in modo gagliardo (23 punti, 10 rimbalzi, 2 stoppate, il 55% dal campo e l’86% dalla lunetta le sue medie contro i Bulls), le 10 stoppate contro i Lakers di Magic, Worthy e Divac nel 1991 al suo secondo anno, le doppie doppie da 20 punti e altrettanti rimbalzi. Tutti career accomplishment, certo, ma niente che spieghi il perché Kemp fosse così tanto amato, al punto che ancora oggi capita di vedere al campetto giocatori ostentare la 40 dei Sonics con baldanza. La conclusione a cui sono giunto è che Kemp è ancora oggi così tanto amato non tanto – non solo – per la spettacolarità del suo gioco
(ci sono due categorie di persone, tra i fan della pallacanestro USA: quelli che pensano che questa sia la schiacciata più spettacolare mai vista in una partita NBA, e quelli che mentono)
Quanto per il suo essere un guerriero solitario, un eroe tanto indomito quanto fragile, un giocatore di puri istinti, dove per istinti non si intendono necessariamente quelli cestistici, ma quelli propri dell’essere umano. Un giocatore per molti versi animalesco, potente come nessuno lo era mai stato prima di lui e proprio in quanto tale inimitabile, e questa sua basicità è stata insieme il suo maggior punto di forza e il suo più grande limite. L’occhio dell’appassionato guardava Shawn Kemp nella speranza di poter ammirare la giocata più spettacolare mai vista, quello dell’esperto lo osservava non aggiungere armi al suo arsenale offensivo, prediligere la supremazia data dall’atletismo piuttosto che migliorare il tiro piazzato, il senso del tempo e la tecnica di tagliafuori a rimbalzo. E tuttavia è difficile che si parli di lui quando si mettono insieme i più grandi what if? della storia della NBA, semplicemente perché non è possibile immaginare uno Shawn Kemp diverso da quello che abbiamo avuto. O meglio, perché qualsiasi altra versione di Kemp nel multiverso sarebbe stata meno affascinante di quella che ci siamo goduti. Badate bene: “affascinante”, non “efficace” né tantomeno “vincente”.
Quella furia, quella ferocia che metteva ad ogni attacco al ferro era la stessa furia, la stessa ferocia dei pezzi grunge di quegli anni, la stessa rabbia mal repressa di una generazione di adolescenti che voleva distruggere tutte le patine glitter degli anni ottanta a forza di mazzate, e insieme il senso di impotenza nel non riuscire ad arrivare fino in fondo, despite all my rage I am still just a rat in a cage. Shawn è stato un giocatore che una generazione ha amato incondizionatamente perché era come loro, nello spirito, nella sua essenza più intrinseca.
The Glove & The Reign Man: Standing ovation.
Rispetto alla squadra che aveva accolto il rookie Shawn Kemp, guidata da Bernie Bickerstaff, i Seattle SuperSonics del triennio 1994-1996 erano profondamente diversi. Nel ruolo di point guard c’era Gary Payton, uno dei migliori difensori sulla palla della storia del gioco, Kendall Gill prima ed Hersey Hawkins poi nel ruolo di guardia, il secondo tedesco più forte di sempre – dopo quello che qualche anno dopo ha fatto benino a Dallas – come ala piccola (parentesi musicale: il gruppo statunitense Band Of Horses ha scritto un pezzo che porta il suo nome) e un tourbillon di gente nel ruolo di pivot: Michael Cage, Ervin Johnson, Sam Perkins, Bill Cartwright, Frank Brickowski. E una sicurezza in panchina, l’emergente coach George Karl. In questo lasso di tempo di tre anni, Kemp e soci hanno vinto il 75% delle partite giocate (rispettivamente 63, 57 e 64 vittorie), conosciuto due brucianti eliminazioni al primo turno (nei playoff del 1994 furono la prima squadra coi seed #1 a perdere una serie contro la #8, impresa riuscita solo ad altre quattro squadre fino ad oggi) e perso la finale NBA 4-2 contro la squadra più forte di sempre. Se il leader tecnico di quella squadra era probabilmente Gary Payton, Kemp era l’icona, il giocatore più in vista, quello che era riuscito nella difficilissima impresa di mettere Seattle sulla bocca di tutto il mondo del basket per la prima volta in un quarto di secolo, da quando a vestire la maglia gialloverde c’erano Dennis Johnson e Jack Sikma. Quei Sonics lì portarono il titolo a Seattle, impresa poi non riuscita a The Glove, The Reign Man e soci. Eppure, il giorno in cui i Sonics presentarono ai loro tifosi il proprio All-Time team, il giocatore che si prese la standing ovation più lunga di tutti fu proprio lui. Non gli eroi del titolo del 1979 (come la canzone degli Smashing Pumpkins, guarda caso), non Gary Payton, che lasciò Seattle per provare a prendersi un titolo con la maglia dei Lakers e ci riuscì dieci anni dopo quella finale del 1996 in maglia Miami Heat. No, l’applauso più lungo andò a Shawn Travis Kemp, l’eroe spettacolare e fragile, quello che ha passato guai con la giustizia prima e dopo il suo periodo in maglia Sonics, che ha avuto problemi di alcolismo che ne hanno limitato la durata della carriera e che a 39 anni cercò invano di riciclarsi giocatore in Italia, a Montegranaro: al fenomeno bellissimo però incompiuto. Guardare la carriera di Shawn Kemp è come leggere “Il Partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio, contemplare “L’Adorazione dei Magi” o immergersi nell’ascolto della “Sinfonia n. 8 in si minore D 759” di Franz Schubert: opere incompiute, d’accordo, ma talmente belle che ha persino poco senso immaginarle diverse da così.