Game changer è un’espressione inglese che in italiano può essere tradotta come “punto di svolta”, “momento” o “idea” che cambia le carte in tavola in una situazione. Nello sport, qualcuno che cambia le regole del gioco, che se entra in campo costringe a giocare in un modo diverso da come si era fatto fino a quel momento. Game changer è anche il nome che Marcus Smart, guardia dei Boston Celtics classe 1994, ha dato alla sua associazione benefica, “Young Game Changer”, e si presenta sotto questo pseudonimo anche su Instagram. La scelta del nome è perfettamente in linea con quello che Marcus rappresenta per i Celtics. È l’uomo che ha in mano le redini mentali della squadra e sa come gestirle nei momenti bui di un match o di una stagione, oltre al fatto che spesso è lui a fare tutte quelle piccole cose che in maniera più o meno nascosta indirizzano una partita. Il suo percorso ha avuto tante tappe importanti, che lo hanno portato a essere, ad oggi, l’anima e il cuore dei Boston Celtics, la bussola emotiva in grado di pilotare gli umori di compagni e tifosi.
Marcus Smart con i tifosi nel 2019 (David Butler II/David Butler II)
Defense is the key.
Lake Buena Vista, Florida, 11 settembre 2020.
Gara 7 tra Boston Celtics e Toronto Raptors è un inno alle difese, il coronamento di una serie giocata in gran parte nelle rispettive metà campo. È una partita sporca e tesa, come ogni gara da dentro o fuori che si rispetti. È una sfida in cui i Celtics sono quasi sempre avanti, ma nei minuti finali devono fare i conti con il cuore di chi proprio non ci sta a farsi strappare il titolo di campione NBA in carica.
Manca un minuto sul cronometro, i Raptors sono sotto di sole due lunghezze e la palla è in mano ai biancoverdi. Per cercare due punti facili ci si affida a Jayson Tatum, che penetra fino al ferro, ma sbaglia un layup praticamente già fatto. Siakam strappa il rimbalzo e serve Norman Powell, che si invola verso il canestro. Con quattro palleggi copre tutto il campo, stacca da terra e sale per la schiacciata che varrebbe il pareggio. Il movimento è forse un po’ pretenzioso, ma sarebbe probabilmente riuscito se in recupero su Powell non ci fosse uno che è All-Defensive Team NBA da due anni non per caso. Marcus ricorda che in gara uno Powell lo ha battuto in una situazione simile e sa che il suo avversario andrà a schiacciare. In poco più di mezzo secondo decide, come egli stesso ammetterà poi in conferenza stampa, di non fare fallo, ma di andare ad aspettare Powell “up top”, scelta saggia. Regge la furia del numero 24 lanciato verso il canestro, salta con lui e lo stoppa. È il momento decisivo della partita, perché da lì in poi Toronto non trova più la via del canestro mentre Boston con un 3/6 ai liberi chiude il match col punteggio di 92-87 e strappa un biglietto direzione Eastern Conference Finals.
Il gesto atletico di Smart, eseguito con un tempismo perfetto e niente affatto scontato – dopo una serie da 6 partite e 47 minuti sulle spalle – non è frutto di un momento di spiccata lucidità, ma di una mentalità e di una carriera costruite sull’arte bistrattata della difesa.
Smart è uno di quei giocatori per cui difendere non è solo il compito che l’allenatore gli assegna in campo, ma una vera e propria missione, fatta di tante piccole cose che fanno girare i match. Lo dimostrano le 3.2 deflections (cioè le palle sporcate) di media a partita nella scorsa regular season, e le palle recuperate, quasi due di media a gara negli ultimi due anni. Smart è una guardia, ma nonostante il ruolo ha buone doti di rimbalzista e soprattutto è in grado di difendere su cinque le posizioni. Non è raro trovarlo contro un lungo in post, spalle a canestro, perché con la sua fisicità riesce spesso a contenere anche gli attaccanti più possenti.
Per affrontare i giganti della lega ha sempre messo in campo tanta aggressività, e non sempre questa è stata vista in maniera positiva. Sin dal suo anno da rookie molti lo hanno definito con superficialità un flopper, uno che esaspera i contatti per attirare l’attenzione degli arbitri, e soprattutto un provocatore, che usa l’agonismo ai limiti del legale. Alcuni scontri con stelle come Joel Embiid e James Harden sembravano confermare questa tesi, ma con il tempo è emerso il vero temperamento del giocatore biancoverde.
L’intensità di Marcus sul campo non è fine a se stessa, ma è continuamente messa al servizio della squadra. “He’s all about the team”, affermano i compagni, anche se questo significa meno foto in prima pagina e l’etichetta da attaccabrighe. Se alla squadra serve uno specialista difensivo che si appiccichi alla star del momento, lui sarà pronto a prendersi quel compito e lo porterà avanti con tutta l’energia, la grinta e la fisicità di cui ci sarà bisogno.
Family first.
Il punto da cui nasce l’irruenza di Marcus sul campo dista 1.178 miglia da Boston e ha poco in comune con i grandi nomi sui parquet NBA. Lancaster, Texas, si trova nella periferia sud di Dallas e ancora oggi ha un tasso di criminalità tra i più alti d’America. Dopo aver perso il fratellastro Todd a causa di un tumore e aver visto l’altro fratello maggiore Michael finire nel tunnel della cocaina, Marcus intravede una sola strada davanti a sé. È cresciuto in zone dove regna la legge del più forte e dove domina l’idea che la violenza sia l’unico modo per affermarsi e per rispondere agli attacchi esterni. A 12 anni si fa coinvolgere in piccoli furti, atti vandalici e soprattutto risse. La lotta, come ha raccontato anni dopo a USA Today, era l’unica valvola di sfogo, l’unico modo per esprimere quel gran casino che aveva dentro e rovesciare la frustrazione, la paura che la vita di suo fratello Michael venisse spazzata via dalle leggi della strada, il dolore per la scomparsa di Todd. Che più di un fratello, Todd era stato per Marcus una sorta di seconda figura paterna. Aveva 23 anni più di lui ed era una promessa sul campo da basket, dove i due passavano gran parte del loro tempo. Todd poi aveva preso sotto la sua ala il fratello minore anche nella vita di tutti i giorni, insegnandogli come radersi o come presentarsi in maniera adeguata a un colloquio di lavoro.
Il punto di non ritorno arriva quando una sera Marcus, insieme a un suo amico, colpisce intenzionalmente un passante incappucciato in bicicletta, lanciando sassi da un palazzo. L’uomo vede i due ragazzini e inizia a rincorrerli, minacciando di ucciderli, seguendoli con una pistola in mano. A seguito dell’episodio la madre si convince a lasciare la città e a trasferirsi nella vicina Flower Maud, dove Marcus inizia a rinascere grazie a un ambiente più sicuro e alle lezioni di gestione della rabbia. Capisce che il suo talento nel basket può garantire a lui e alla sua famiglia un futuro roseo, lontano dalle minacce della violenza e della droga.
Canalizzando la rabbia nel basket, Marcus inizia a ottenere dei buoni risultati individuali. Giocando per la sua Edward S. Marcus High School fa registrare 15.1 punti, 9.2 rimbalzi e 5 assist di media nel suo anno da senior, con un record di squadra di 115-6 in tre stagioni e vincendo due volte il campionato statale. Viene convocato per il McDonald’s All-American ed ESPN nel 2012 lo mette al primo posto tra i prospetti nel ruolo di shooting guard e al decimo posto tra i migliori giovani della nazione.
I numeri e i riconoscimenti significano borsa di studio, Oklahoma State, e coach Travis Ford. È qui che il suo spiccato fiuto difensivo inizia a emergere e alla fine della prima stagione è al primo posto tra tutti i giocatori della Big 12 per palle rubate: 99, con una media di 3.0 a partita. I Cowboys si guadagnano l’accesso al torneo NCAA nel 2013 e nel 2014, ma vengono eliminati prima da Kansas State e poi da Kansas. Nonostante la sconfitta, Marcus entra nella storia del torneo, diventando il primo giocatore della storia a mettere a referto più di 20 punti, 10 rimbalzi, 5 assist e 5 palle recuperate, grazie a una prestazione da 23+13+7+6. Il 19 novembre 2013 contro Memphis ne mette a referto 39: i suoi numeri in attacco fanno pensare ad una possibile evoluzione in realizzatore anche in NBA, ma le cose vanno diversamente.
Quando i Celtics lo chiamano con la sesta scelta nel draft 2014 la squadra è in pieno rebuilding dopo gli addii di Kevin Garnett e Paul Pierce ed è guidata per il secondo anno da un giovanissimo Brad Stevens. Nonostante avesse mancato i playoff l’anno precedente, Stevens aveva già iniziato a mettere in mostra la sua capacità di massimizzare il talento a sua disposizione e di promuovere i giovani, processi che metterà in atto anche con Marcus nel corso dei suoi sei anni in biancoverde.
Il debutto nella lega arriva il 29 ottobre 2014 contro i Brooklyn Nets. 10 punti, 2 rimbalzi e 2 assist in 28 minuti. Oltre a questi numeri ci sono soprattutto le 4 palle recuperate, che prefigurano quello che diventerà il suo contributo principale nell’economia della squadra. Il suo esordio praticamente è un piccolo riassunto di quelle che saranno le sue prime due stagioni NBA, che si chiudono con 27 minuti di media a partita, 8.5 punti, 3.8 rimbalzi, 3.1 assist e 1.5 palle rubate, cifre valide per un posto nel All-Rookie Second Team nel 2015. Nei primi due anni Marcus non è ancora un collaudato terminale offensivo, ma è un guardiano a difesa del proprio canestro che, pur alzandosi dal pino, ha comunque a disposizione minuti di qualità sul parquet.
Il problema sono gli infortuni. Negli anni da rookie e sophomore salta 39 partite per una serie di piccoli acciacchi che gli impediscono di trovare la giusta continuità.
Sia nel 2014 che nel 2015 i Celtics raggiungono i playoff ma non riescono ad andare più in là del primo turno, eliminati dai Cavs prima e dagli Hawks poi. Quest’ultima sconfitta, in particolare, lascia l’amaro in bocca agli uomini di Stevens, che costruiranno proprio su quella rabbia la svolta delle annate successive.
Elevate your game.
Nella stagione 2016-2017 i Celtics volano trascinati dalla tenacia e dall’esplosività di Isaiah Thomas, che mette insieme una stagione da quasi 29 punti e 6 assist di media, facendo impazzire sia le difese avversarie, che non riescono a contenerlo, sia i tifosi del Garden, esaltati da tutta quella sfrontatezza compattata in appena un metro e settantacinque di altezza. I Celtics affidano le chiavi della regia a Thomas e salutano Evan Turner, direzione Blazers. Marcus inizia a giocare come shooting guard proprio al posto di Turner e i minuti che gli sono concessi diventano quasi trenta a partita, sempre in uscita dalla panchina per lo più. La difesa rimane il centro nevralgico del suo gioco, riesce anche a ridurre il numero di falli commessi, da 3 a 2.4 a partita, conquista di tutto rilievo per un giocatore fisico come lui.
Senza Turner, però, a Marcus vengono affidate anche più responsabilità in attacco. Quando è in campo la squadra segna di più grazie alle sue penetrazioni che spesso fanno collassare in automatico la difesa, aprendo scarichi per i compagni. Lavorare sull’attacco significò soprattutto lavorare sul tiro da tre, da sempre il suo punto debole nella metà campo offensiva. Smart ci si concentra per tutta la stagione e riesce a elevare il suo gioco quando la squadra ne ha più bisogno.
Come fa in Gara 3 della Eastern Conference Finals 2017, contro i Cavs di LeBron James, intenzionati a marciare a testa bassa verso l’ennesima sfida per il titolo contro i Golden State Warriors.
Sotto due a zero, in casa Celtics piove sul bagnato con Isaiah Thomas costretto a sedersi in panchina per un infortunio. Stevens sceglie proprio Smart per sostituire il suo play in quintetto e il nativo di Lancaster non lo delude. Boston porta a casa la partita, lui chiude con 41 minuti giocati, 27 punti, 5 rimbalzi, 7 assist, 2 stoppate e soprattutto 7 triple, record per un Celtic in finale di Conference, con Bird e Allen fermi a 5.
I Celtics non riescono però a resistere allo strapotere fisico di LeBron e compagni, e vengono di nuovo eliminati. L’anno successivo Ainge punta al titolo senza mezzi termini, firmando Gordon Hayward e Kyrie Irving per provare a limitare il dominio dei Cavs a est. La sfortuna però maledice Boston, con Hayward costretto a saltare tutta la stagione per un brutto infortunio (distorsione della caviglia e frattura della tibia) dopo soli cinque minuti in biancoverde, e Kyrie che accusa problemi fisici proprio a ridosso delle finali di conference. La tenacia spinge comunque Celtics fino alla finale della Eastern, ma per la terza volta in quattro anni i Cavs hanno la meglio e accedono alle Finals. L’anno dopo Kyrie e Hayward tornano a disposizione, ma i Celtics vengono comunque eliminati dai Bucks in semifinale di conference. È il momento che segna il fallimento del progetto Irving, che abbandonerà Boston da lì a qualche mese, lasciando i Celtics con una squadra in cui i “veterani” in maglia biancoverde hanno 21 (Tatum), 23 (Brown) e 25 (Smart) anni.
Nella stagione 2019-2020, Smart è definitivamente diventato il leader emotivo della squadra e ancora una volta è salito in cattedra nel momento del bisogno, contro i Raptors ai Playoffs. Il game plan dei canadesi prevedeva di sfidare i Celtics al tiro da fuori, impedendo le soluzioni sotto canestro. Smart non si è sottratto alla sfida e ha tirato con quasi il 38% da tre nella serie, toccando l’apice in gara due, chiusa con 19 punti e 5 triple consecutive nel quarto quarto, che hanno dato il colpo di grazia alla resistenza canadese.
Success is about growing others.
Ad oggi, Marcus è il giocatore dei Celtics in squadra da più tempo. Danny Ainge lo ha chiamato sei anni fa e praticamente, nonostante le tante sirene, non lo ha più lasciato. Accanto all’energia difensiva il suo apporto in termini di leadership è cresciuto a dismisura. Sul campo la sua voce è quella che si sente di più e che viene cercata più spesso dai compagni. Terry Rozier aveva detto di lui “he’s always talking” e lo aveva definito “loud”, perennemente in attività in campo in panchina a guidare i compagni. Se vedeste una partita al TD Garden, oggi, nel trambusto del calorosissimo pubblico di Boston riuscireste indistintamente a capire quando è lui a parlare.
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Un concetto di leadership che ha tramutato anche nel suo contributo a rasserenare, nei momenti peggiori, gli animi del team. All’inizio dell’ultima, lunga stagione, Smart si è preso sulle spalle la responsabilità di creare la chimica di una squadra per larghi tratti nuova, indicando la strada ai compagni e praticamente non sbagliando una singola dichiarazione evidentemente mirata a toccare le corde giuste del roster, da vero carismatico. Passando per la serata al cinema ogni domenica e alle mille iniziative per tenere coinvolti i giovani del gruppo.
“Success is about growing others” è una frase del CEO della General Electric Jack Welsh e sottolinea come per essere un leader occorra prendersi cura degli altri, sostenendoli nel loro cammino. A fronte di tanti veterani che lasciano spesso che i rookie si facciano le ossa da soli, apprendendo le dure leggi della lega andando a sbatterci contro, Smart ha preferito diventare una sorta di accompagnatore. “Il mio obiettivo”, ha affermato, “è andare a lavoro ed essere sicuro che questi ragazzi sappiano chi devono essere. Se riesco a fare questo, ho fatto il mio dovere”. Come hanno ammesso Carsen Edwards e Grant Williams su tutti, questo incoraggiamento li ha aiutati a scendere in campo più pronti e più sicuri, perché consapevoli di avere la fiducia dei compagni.
Le responsabilità che Marcus ha dimostrato di sapersi prendere sono salite a dismisura dopo il fallimento dell’esperimento Kyrie e un umore praticamente sotto terra di giocatori, coaching staff e frranchigia. Senza troppe scuse ha iniziato la stagione affermando “we like being the underdogs” e ha affrontato l’addio di Kyrie con grande maturità, individuando i punti critici sui quali alzare la voce e spronare il suo contorno.
Quest’anno la scossa emotiva più forte l’ha data dopo gara 2 di finale di conference con Miami, dove i Celtics hanno lasciato scappare via un solido vantaggio di 17 punti. Nello spogliatoio, secondo i testimoni, c’è stato uno scontro quasi fisico tra lui e Jaylen Brown, un confronto che la stampa ha presentato come un punto di rottura nella chimica di squadra ma che ha rinvigorito i Celtics, che grazie a una maggiore concentrazione si sono portati a casa gara tre grazie anche ai suoi 20 punti, 4 rimbalzi e 6 assist.
La scossa, lo sappiamo, non è stata comunque sufficiente e la lite con Brown è stata usata fino alla nausea per dimostrare una sua presenza quasi tossica nelle dinamiche di spogliatoio, ricacciando vecchi episodi risalenti ai tempi di Oklahoma State, quando si azzuffò con un tifoso di Texas Tech seduto poco distante da canestro, reo di aver rivolto al giocatore insulti razzisti. Marcus, tuttavia, ha imparato a far scivolare queste polemiche su di sé senza troppi indugi.
Boston is the place to be.
Boston è impazzita per il suo pupillo, perfetto esempio e portatore di quel bleed green che in città amano ripetere con orgoglio. La sua etica lavorativa e la sua voglia di lottare per emergere si sono sposati sin da subito con i valori dei biancoverdi. I tifosi Celtics vedono in lui la rappresentazione della loro filosofia blue-collar e gli hanno dimostrato affetto anche al di fuori del campo, accogliendolo e consolandolo come un figlio o un fratello quando nel 2018 ha annunciato la scomparsa della madre a causa di un tumore. L’affetto è stato ricambiato da Smart, che dopo aver firmato il rinnovo nel 2017 è diventato uno dei pilastri del giovane progetto biancoverde: lui, Brown e Tatum sono le fondamenta di un futuro ambizioso, competitivo e vincente per la franchigia di Beantown.
Marcus è un giocatore che ha saputo costruire le sue fortune a partire dalle sue debolezze, ha saputo sfruttare la rabbia accumulata durante l’infanzia per costruire uno stile di gioco aggressivo, e ha imparato dai suoi trascorsi a non abbassare la testa davanti a nessuno. Si è adattato a tanti compagni differenti, condividendo la scena con nomi più grandi di lui, come quelli di Kyrie o di Isaiah Thomas. Ha saputo aspettare il suo momento continuando a fornire un contributo essenziale da sesto uomo e ha limato le lacune tecniche sul tiro da tre per diventare una minaccia anche in attacco. Oggi è in grado di fare quasi tutto in campo, ma la grandezza di un giocatore sta nel fare quello che ogni singola partita gli chiede di fare, e in questo è un vero gigante.
A Boston si sono fatti trascinare da questo giocatore, in grado di uscire dalla sua rotta, una strada verso il baratro, e orientare la bussola verso i più grandi parquet NBA, grazie alla determinazione, alla grinta, all’affetto di famiglia e tifosi e alla fiducia nei propri mezzi. Semplicemente, young game changer.