Il poeta John Donne disse che nessun uomo è un’isola, ma una parte integrante del tutto, di ogni cosa. Se la si guarda sotto un’altra prospettiva, meno sacrale e più assoluta, si può arrivare ad asserire che la Terra stessa, sia un’isola. Un’isola sospesa nella totalità dell’universo.
Una leggenda narra che i fratelli Maui, semidei di nobile stirpe polinesiana, dopo aver pescato dai fondali le isole Hawaii, non si sentivano ancora appagati. Così salirono in barca e si spinsero più a meridione. Arrivati nel punto più profondo dell’Oceano, il più giovane di essi gettò un enorme amo e pescò il più grande dei pesci magici. Lo chiamò Aotearoa, “Terra della lunga nuvola bianca”. Quella stessa Terra che noi conosciamo con il nome di “Nuova Zelanda”.
Ka mate, ka mate / È la morte, È la morte
Ka ora! / È la vita!
Tēnei te tangata pūhuruhuru / Questo è l’uomo dai lunghi capelli
Nāna i tiki mai whakawhiti te rā / …è colui che ha fatto splendere il sole su di me
Era il 1820 circa.
Te Rauparaha era il grande capo della tribù degli Ngati Toa Rangatira.
Un giorno, nel tentativo di sfuggire ad un inseguimento da parte dei nemici, chiese all’amico Te Whareangi di proteggerlo. Costui lo nascose in tutta fretta dentro un pozzo, a guardia del quale mise la sua stessa moglie Te Rangikoaera, poiché i Maori credevano che i genitali femminili fossero in grado di dare assoluta protezione. Nel sentire l’arrivo dei nemici, il fuggitivo sussurrò, con sibilo leggero: «Ka mate ka mate» (muoio, muoio), ma quando poi udì i nemici allontanarsi, sviati da Te Whareangi, ripeté sollevato: «Ka ora!» (vivo!). Risalì il pozzo desideroso di onorare l’amico, ovvero “l’uomo dai lunghi capelli” che lo aveva protetto e gli aveva dato la possibilità di vedere nuovamente “il sole che splende”. Inscenò pubblicamente una danza di ringraziamento in suo onore. È così che nacque la Haka Ka Mate.
Questa variante di Haka è la più conosciuta, in quanto fieramente utilizzata dagli All Blacks, sin dagli albori, quando questa leggendaria squadra di rugby salpò da Auckland. Era il 1905. Dopo quaranta giorni di navigazione sbarcarono a Plymouth, Inghilterra. Disputarono la prima partita nel vecchio Continente, contro la selezione della contea di Devon, che annoverava i più grandi talenti dell’epoca. Finì 55 a 4 in favore dei corpulenti uomini in divisa nera.
Dall’Inghilterra all’Irlanda. Dalla Scozia al Galles, dalla Francia agli Stati Uniti. Girarono molto e assaporarono fama e vittoria, per poi tornare in patria e riprendere ognuno la propria professione di calzolaio, di fabbro, di agricoltore.
Haerenga, il viaggio.
Molti anni dopo quel 1905, esattamente nel 1960, un giovane inglese, così come molti europei dell’epoca, intraprese quel viaggio a ritroso.
Sid Adams era un ragazzo alto ben più di due metri, dinoccolato. In Inghilterra non si trovava molto a suo agio: si sentiva deriso per via di quel suo lungo corpo e trattato come un fenomeno da baraccone. “Freak”. Dopo un trascorso nella Royal Navy e un’incerta dimestichezza con la navigazione, partorì un’idea drastica: si sarebbe imbarcato furtivamente. C’era una nave commerciale in procinto di lasciare il porto. Mirava all’approdo della Nuova Zelanda e sembrava fare al caso suo.
Il suo arrivo nell’isola non fu altrettanto occulto e venne arrestato in quanto clandestino. A questo punto, una volta rilasciato, la mossa più conveniente era quella di prender moglie e godersi la cittadinanza del luogo. Effettivamente scoprì che qui il suo aspetto non destava stupore e nemmeno risate. Al contrario, godeva di un certo ascendente sui canoni di bellezza locale. Prese una moglie, poi negli anni, altre quattro. Una di queste era Pakeha, termine maori ad indicare discendenze prettamente europee. I Pakeha erano gli invasori. Maori invece significa “normale”. Un’altra sposa proveniva dagli atolli Tokelau, altre due mogli originarie di Aotearoa e poi un’altra, nativa del regno di Tonga.
I suoi legami matrimoniali duravano poco, ma si concretizzavano presto. Mise infatti al mondo la bellezza di diciotto figli, senza immaginare la dirompente potenza di queste miscele genetiche.
Funaki.
La famiglia di Sid Adams, o meglio: le sue famiglie, abitano a Rotorua, una piccola città nell’isola nord della Nuova Zelanda, la cui superficie sembra tranciata di netto dalla corrente dell’Oceano. Il Grande Lago, che alberga maestoso ai piedi della piccola città, è in realtà una caldera vulcanica con al centro un’altra piccola isola, Mokoia. Ovunque, nei dintorni della Contea, pozze di fango ribollono a cadenza regolare, così come il geyser Pohutu, che erutta zampilli imponenti di acqua calda, carica di silice e vapori. Pozze termali di ogni colore invadono il verde dei prati, che qui è più saturo che altrove, forse più bello che altrove. Qui l’orizzonte lo puoi anche annusare. Il protagonista della nostra storia, che è molto più pragmatico, una volta ha detto che: «Rotorua puzza come se qualcuno ti scoreggiasse in faccia tutto il tempo». Ma ha poi anche dichiarato: «Tranquilli, dopo un po’ ci si abitua».
L’ultimo degli eredi di Sid vede il mondo il 20 luglio 1993, nel pieno dell’inverno australe. Crescerà alto come suo padre e dai lineamenti esotici, tipicamente materni.
Steven Funaki Adams non avrà mai molti rapporti diretti con sua madre. È papà Sid, il suo più grande riferimento.
Detesta vederlo così malconcio. Suo padre ha già sessant’anni avanzati ed è logoro dall’incredibile storia che è stata la sua vita, che ora sembra avanzare verso la fine. Si sorregge a fatica su un bastone e le sue gambe sono state compromesse da un grave incidente subìto anni prima. Non può lavorare i campi come una volta, ma è orgoglioso di vedere come suo figlio, ogni mattina, corra verso la fattoria di uno dei suoi tanti fratelli.
Steven ha due sogni: quello di diventare un glorioso All Blacks, e quindi un esempio per il suo Paese, oppure un contadino, come lo fu l’uomo che è di grande esempio per lui.
È un bambino ma cresce a dismisura, fra la premura spesa nei campi e quella che adopera accudendo gli animali. Un giorno però, inizierà a sentirsi meno libero, e molto più triste.

La lunga ombra
Un tumore sta come divorando lo stomaco del vecchio Sid, che muore nel mezzo di un giorno qualunque. È il 2006; Steven ha quasi quattordici anni e non si è mai sentito così malinconico. Il mondo che tanto gli piaceva è diventata un’ombra che gli si sta restringendo addosso. Non riesce a dare un nome a tutto questo, non lo conosce ancora. Si chiama depressione, e ne parlerà soltanto molti anni dopo:
«Dopo la morte di mio padre, non avevo più la forza di combattere. Sapevo di dover fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Non avevo più uno scopo nella vita, non sapevo dove cercare di puntare in alto. Quando ci ripenso, mi rendo conto di sentirmi solo, e, onestamente, anche un po’ depresso. Nessuno infatti mi ha detto come poter affrontare il dolore»
Il modo con cui cerca di scrollarsi da questo torpore, lo spinge ad abbandonare di nascosto la scuola. Mente continuamente ai fratelli, per mesi vive praticamente in strada.
Il suo fisico è longilineo, già enorme per la sua età. Ha giovani braccia e una psiche che al momento è fortemente plasmabile. C’è chi se ne accorge, e si frappone fra lui e il suo cammino.
Quando alcuni membri di una gang lo avvicinano e gli tendono la mano, il quattordicenne Steven, senza pensarci troppo, porge la sua. E poco importa se quelle che stringe sono mani insanguinate.
Mongrel Mob.
Una banda di strada organizzata. Sono la variante oceanica dei Bandidos (la gang che ha ispirato, fra le altre, la serie americana “Sons of Anarchy”).
I Mongrel Mob sono una realtà attiva dagli anni Sessanta e vantano oltre trenta chapters sparsi in tutto il territorio neozelandese. Sono motociclisti, anche se per loro non è così prioritario esserlo. La cosa più importante, piuttosto, è la guerra ai Black Power, la loro gang nemica. Le due fazioni si danno caccia da sempre. L’obiettivo è il controllo del territorio, della prostituzione e del traffico di droga.
Quello delle gang organizzate è un problema che attanaglia da molto il governo neozelandese. Si stima che circa mille detenuti nelle carceri nazionali siano di questa matrice malavitosa. Circa un decimo di tutti i prigionieri del Paese.
Tenendo conto soltanto dei due raid effettuati nei primi cinque mesi del 2017 -che hanno visto 450 agenti impiegati nelle operazioni- sono stati sottoposti a sequestro circa 2 milioni di dollari in contanti, alcune proprietà dal valore totale di 2.3 milioni di dollari, altri centomila in conti correnti, sette chili di metanfetamina, cento piante di cannabis, decine di veicoli rubati e poi barche, moto d’acqua e un discreto arsenale di armi.
I membri di questa mafia sono in genere completamente tatuati, soprattutto sul viso, indossano bandane rosse e giubbini di pelle con toppe spesso raffiguranti simboli nazisti. La toppa che conta davvero, l’unica ufficiale, raffigura il loro emblema: un bulldog britannico con addosso un elmetto tedesco.
La gerarchia è molto semplice: in ogni chapter c’è un presidente con al di sotto il suo vice, che a sua volta fa affidamento ad un sergente d’armi che gestisce le strategie di guerriglia. Poi ci sono i membri rattoppati (quindi entrati ufficialmente a far parte della gang) e i prospetti. Questi fanno rapporto ai membri che hanno già ricevuto la toppa e che propongono, a loro rischio e pericolo, quando e se “rattoppare” i novizi.
Steven Adams, il buon Steven Funaki, non ha ancora quattordici anni ma è già, pressappoco, una nuova leva dei Mongrel Mob.
Fortunatamente non ha ancora preso parte al rito d’iniziazione. Questo prevede infatti che i prospetti dimostrino il loro valore, in prove che vanno dal bere urina da uno stivale di gomma al commettere un crimine specifico. Dall’essere picchiati dalla banda stessa, allo scontare la prigione per un crimine commesso da un altro membro.
Fra lui e questo punto di non ritorno ci sono due elementi di contrapposizione. Il primo sono le radici, quelle che in qualche modo gli sono state “piantate” da suo padre Sid e che ora gli consigliano, in cuor suo, di lasciar perdere.
Il secondo elemento a intromettersi fra Steven e i Mongrel Mob è uno dei suoi fratellastri, Warren Adams, che preoccupatosi per lui, lo cerca, lo trova e letteralmente lo trascina via da Rotorua

Whanau.
Nella lingua Maori significa “famiglia”. Quella di Adams è come dire, frastagliata, ma è una famiglia in cui è innestato un genoma particolare. I figli di Sid sono alti in media più di due metri, le figlie più di un metro e ottanta. Valerie è stata per ben quindici volte medaglia d’oro nel lancio del peso, tra cui due ori olimpici e una medaglia d’argento, e sei volte campionessa mondiale.
Fra gli uomini, in sei hanno praticato basket a buoni livelli. Fra questi c’è Warren, che è un ex giocatore dei Tall Blacks, la nazionale cestistica. Ha quarant’anni ora, e dopo aver concluso la carriera guida un camion per pagarsi a malapena le spese.
Warren porta Steven a Wellington, non con l’obiettivo di farlo diventare un cestista, ma di salvargli la vita.
Il più piccolo degli Adams non ha difatti mai giocato a basket, se non per un breve periodo alle elementari. Senza successo, peraltro.
Steven viene affidato da suo fratello alle cure di Blossom Cameron, un’amica di Warren che ha avuto un ruolo simile per lui, vent’anni prima. Lei, fra le altre cose, collabora con lo Scots College: una scuola presbiteriana di lunga tradizione.
Blossom è una signora dotata di una gran solarità e simpatia. Ha un aspetto eccentrico (da un punto di vista occidentale), con lineamenti che sembrano attinti ovunque. Mani tatuate, lunghe trecce e capelli rasati di lato. Un aspetto che tutto sommato le dona. La rende etnica e allo stesso modo rasserenante.
Malgrado sia una donna fuori dagli schemi, Blossom è quasi impressionata dai modi di vivere così selvaggi del giovane, che non possiede vestiti di ricambio e dice di voler dormire sul pavimento. Con molta pazienza lavora sul suo pragmatismo, l’igiene, la dieta e il senso del vestire. Tutte cose che non possedeva una volta arrivato alla sua porta di casa. Spigoli ruvidi, da levigare.
Lo aiuta nell’inserimento allo Scots College, prendendosi anche carico della retta da diecimila dollari annui. Lì i vestiti sono davvero un bel problema per lui: si indossa un’uniforme. La giacca, la cravatta e i pantaloni sono così stretti, e le scarpe in pelle sono scomodissime. Gli altri ragazzi lo prendono in giro perché fatica a leggere, non ne è praticamente in grado, ma tenendo duro e con l’obiettivo di riuscirci, inizia a sentirsi rinvigorito, e a migliorare ogni abilità, perfino quelle scolastiche. Blossom renderà migliore ogni aspetto della sua vita, divenendo tutrice legale di Stevye (lo chiama ancora così, lui invece la chiama “Fata madrina”).
A dir la verità, diventa anche la sua prima personal trainer. Per lei era già scritto in quel fisico così longilineo: diventerà un importante atleta, e tutti parleranno di lui.
Kenny McFadden è un allenatore di basket, ha fondato la McFadden’s New Zealand Basketball Academy. È un giovane uomo americano di colore, dalla faccia buona. Di professione ex cestista che, dopo aver giocato per Washington State University, non ha trovato fortuna negli USA ma ha proseguito la sua carriera in Nuova Zelanda. Arrivato in questa Terra per poi innamorarsene, McFadden non l’ha più lasciata. È stato, fra le altre cose, compagno di squadra di Warren Adams e una leggenda della NBL, la lega nazionale. Lo stesso Warren, incalzante, lo invita ad accettare di allenare Steven.
Quando Kenny McFadden conosce Steven Adams, è impressionato dal suo fisico. A 14 anni è già alto un metro e novanta e lui, che conosce la sua famiglia, sa già che crescerà ancora. Nota che è un prospetto interessante, in termini cestistici. Sembra non conoscere molto i fondamentali e questo è un gran problema, ma ha una buona corsa ed uno splendido atletismo. In aggiunta a queste doti sembra molto determinato, come se si fosse messo in testa di prendere a morsi la vita.
Tutto ciò che McFadden chiede ad Adams è di partecipare a delle sessioni particolari di allenamento, ogni giorno feriale prima della scuola, a cominciare dalle sei del mattino. Se il ragazzo fosse stato in grado di onorare questo impegno, allora magari sarebbe potuto diventare un cestista.
Werawera.
Sudore. Lo ha capito Steven. Prima non sapeva dove mirare, ora sì: più in alto possibile.
Quel parquet assomiglia in qualche modo alla fattoria che tanto amava da piccolo, perché il sudore da versare è lo stesso. Tutto questo duro lavoro lo fa di nuovo sentire bene.
Se avesse lavorato sodo ogni giorno, poi magari sarebbe diventato abbastanza bravo. Lo aveva detto Kenny, e lui si fida di Kenny. Quasi: ogni sera gli manda un messaggio per accertarsi che lo passi a prendere l’indomani, alle 5e30. Puntuale.
È una di quelle mattine, sono in macchina. Steven è pensieroso e Kenny gli chiede perché.
«Se non ce la farò?», domanda lui. «Cosa può impedirmi di entrare nell’NBA o in qualche altra lega?»
«Distrazioni» gli risponde prontamente McFadden.
«Cosa? Ragazze?»
«Non ragazze», specifica Kenny, «Ma tutto ciò che ti impedisce di raggiungere i tuoi obiettivi nella routine quotidiana».
Steven non ha ancora capito bene, così Kenny gli suggerisce di chiedere, domandare fino a non essere certo di capire ogni cosa.
Un banale discorso fra mentore e allievo, certo, ma è anche una delle tante cose che aiuta a capire quanto il carattere di Steven Adams fosse in quel momento ancora tutto da modellare, o forse da scolpire di nuovo, d’accapo.
Fa tesoro di questo (come di tanti altri insegnamenti impartiti dal coach e dalla “fata madrina”), iniziando a fare sempre domande, di continuo, riguardo al gioco di cui si è innamorato o durante le lezioni a scuola. Facendoci caso, anche oggi, ad ogni intervista, è lui quello che fa continuamente domande ai giornalisti, per chiarimenti e per poter dare una risposta ponderata.
McFadden lo allena come se dovesse saper giocare in ognuno dei cinque ruoli in campo, oltre che sotto le plance.
«Se vuoi entrare nell’NBA, non devi essere solo un centro, devi avere molte abilità versatili».
Gli fa spesso riferimento a Magic Johnson (che frequentava l’Everett High School negli anni in cui lui giocava per la vicina Sexton).
Steven, che non conosce Magic perchè non ha mai seguito l’NBA, ha comunque intuito che se migliora fondamentali come il tiro e il palleggio, può ambire a diventare un giocatore più completo possibile.
Quattro anni dopo, nel 2011, diventa professionista firmando per i Wellington Saints. Vince il Rookie of the Year e fa la sua parte nella conquista del titolo NBL.
Quattro anni e mezzo dopo quel loro primo incontro, Kenny ha capito che è giunto il momento.
American Dream.
Jamie Dixon è un apprezzato coach NCAA. Allena a Pittsburgh, Pennsylvania.
Kenny è un amico di lunga data, hanno giocato assieme come professionisti in Nuova Zelanda, più di vent’anni prima. McFadden ha preso il vizio di contattarlo ogni giorno. Dice che ha speso gli ultimi anni ad allenare quello che diventerà il più importante giocatore neozelandese di sempre. È uno dei fratelli di Warren, anch’esso suo compagno di squadra in quei due anni trascorsi a Taradale.
È insistente Kenny. Certo, l’idea incuriosisce e non poco Dixon, che ovviamente è sempre alla ricerca di talenti collegiali. Dubita però che questo giovane possa essere un fenomeno, ma vola a Wellington, più per il rapporto con McFadden che per altro.
La prima volta che visiona questo prospetto è entusiasta ma non folgorato: «Come immaginavo, giocatore e profilo troppo grezzo per gli States». La seconda volta -perché Kenny insiste che ci sia una seconda volta- nota che sembra già migliorato rispetto quella precedente. Dopo il terzo viaggio in Nuova Zelanda, torna in Pennsylvania con il sentore che il suo vecchio amico gli abbia fatto un enorme regalo.
«Abbiamo offerto ad Adams una borsa di studio per il suo primo anno» dice Dixon, «e lui si è impegnato con noi proprio in quel momento. Senza pensarci. Mi viene da riderci perché poi penso che l’abbiamo reclutato per cinque anni e l’abbiamo avuto per cinque mesi».
Il ritorno di Te atarangi.
La verità è che sente la nostalgia di Wellington. Gli manca la sua piccola casa e la compagnia di Blossom. E gli allenamenti con Kenny. Alcune volte si sente un po’ triste, fino al punto di capire che quella specie di malattia è tornata a trovarlo. Te atarangi, la lunga ombra, è di nuovo qui. Dentro di lui.
I giorni passano lenti e sente la necessità di tornare nella vecchia, cara Aotearoa. Là, in quella che viene chiamata “l’altra parte del mondo” e che forse, a pensarci bene, è la parte migliore di tutte. Là dove il duro lavoro viene ricompensato con la felicità. Già; d’altronde qui alla Pitt sente di non lavorare abbastanza intensamente. Gli allenamenti non sono duri e neanche così vari.
McFadden, preoccupato nel sentirlo sconsolato e per evitare che torni a casa, saltuariamente arriva in aereo dalla Nuova Zelanda per dargli una scossa a modo suo, allenandolo per qualche ora, anche subito dopo che Steven abbia giocato una partita. Fa avanti e dietro fino al termine della stagione, quando il ragazzo, quasi diciannovenne e arrivato a misurare 2 metri e 13 in altezza, decide che è giunto il momento di provarci per davvero.
È il 2 aprile 2013, comunica l’intenzione di rinunciare alla carriera universitaria e si dichiara eleggibile per il draft NBA, ma forse non sa ancora cosa aspettarsi.
I colloqui pre-draft sono belli perché prevedono in alcuni casi un pranzo o una cena.
I Kings hanno la settima scelta ed invitano Adams al ristorante per conoscerlo.
Steven come di consueto ha una gran fame. Ordina due antipasti abbondanti e una fiorentina da un chilo e mezzo. Al momento del dolce, chiede di poter ordinare un’altra fiorentina. Si fa portare anche una baguette su un piatto a parte che, per non fare la figura del maleducato, mangia con forchetta e coltello. Poi arriva il momento del dolce. Ovviamente una porzione abbondante. Duecento dollari di cena e il front office dei Kings che deciderà di dirottare quella settima scelta verso Ben McLemore.
Steven sembra vivere in un mondo tutto suo, e forse è proprio questa prerogativa a renderlo così speciale, in un mondo che però è completamente diverso da lui.
Dal colloquio con i Pistons emerge invece che non sa nulla dell’NBA. Uno dei suoi fratelli aveva un vecchio videogioco con cui giocava da bambino. Nel videogame il giocatore migliore era Peja Stojakovic. Un altro suo fratello aveva invece un poster di Larry Bird. Steven, che conosce solo questi due giocatori, vorrebbe tanto chiedere se almeno uno dei due è ancora in attività. Fortunamente, questa domanda la tiene per sé.
OKC Island.
Sam Presti degli Oklahoma City Thunder, coi suoi 37 anni è il general manager più giovane della NBA. Ha guadagnato una prima scelta (divenuta la 12 in lottery) a seguito della trade che ha portato James Harden a Houston.
Nonostante la sua giovane età, è apprezzato nell’ambiente già dopo che nel 2001, quando era venticinquenne e stagista per gli Spurs, consigliò l’acquisizione del francese Tony Parker, che poi guiderà la franchigia alla conquista di quattro trofei NBA. È solito non avere nessun tipo di remore, figuriamoci se è impressionato da questo ragazzotto dall’aria simpatica e anticonvenzionale, che sta dicendo che con i soldi del primo contratto NBA potrà aiutare molti cari nel suo Paese d’origine, e fare innamorare tutta la Nazione di uno sport che non sia il rugby.
Nuova Zelanda, 27 giugno 2013.
A Rotorua, più di mezza dozzina di fratelli e sorelle di Steven sono assiepati -come molti altri neozelandesi in quel momento- davanti a una piccola TV. È tarda mattina e sono sintonizzati sulla diretta del draft NBA, in onda da New York con 18 ore di fuso orario.
Nello stesso istante, 450 chilometri più a sud, a Wellington, Blossom Cameron è seduta in un bar affollato. Tiene le dita incrociate ad ogni annuncio del commissioner David Stern. Quando si arriva alla dodicesima scelta e viene pronunciato il nome di Steven Adams, non riesce a trattenere un grido di gioia. Contemporaneamente, a Rotorua, stanno già iniziando dei balli di festeggiamento che dureranno per tutto il pomeriggio.
Al Barclay Center di New York, 14000 chilometri di distanza in linea d’aria, Steven sta goffamente abbracciando Kenny McFadden. Calza maldestramente il tradizionale berretto del draft, senza badare ad aggiustarselo. Si allaccia la scomoda giacca, dentro la quale ha fatto cucire la bandiera neozelandese e si avvia incerto verso il campo, camminando sulle strette scarpe in pelle. E verso la sua nuova vita.
He moto te ao : Il mondo è un’isola.
Ad oggi Steven Adams è forse il giocatore più amato da tutti i tifosi della lega, in termini di simpatia. Le sue interviste sono un susseguirsi di risate. Parla sempre schietto, con quel suo inconfondibile accento e sembra poter adattarsi ad ogni situazione. Molti dei suoi avversari lo dipingono come “il più duro di tutti”. Jimmy Butler, uno che non si tira mai indietro, ha detto che l’unico modo per spiegare la sua forza fisica è che provenga dal pianeta Krypton.
In questi anni, molti dei suoi compagni di squadra, come Kanter (il suo Stace Brother), Perkins, Westbrook o Collison (che è stato come un fratello per lui) lo hanno amato per la sua semplicità e quella voglia di lavorare duro.
Ad Oklahoma City è stato per sette anni la colonna portante della squadra, quello che più di tutti lavorava duro e che più degli altri si sacrificava per il bene comune. Lo Steven inteso come uomo, si è invece intrecciato perfettamente nel tessuto sociale della città, che non avrebbe mai voluto vederlo partire.
Sam Presti aveva ampiamente avuto ragione sul suo conto, ma ora c’è una squadra da rinnovare, e quindi un sacrificio da compiere. Quando recentemente hanno chiesto ad Adams cosa pensasse, sul fatto di essere stato scambiato ai New Orleans Pelicans, la sua risposta è stata un riassunto di come negli anni abbia acquisito una certa singolare, personalissima filosofia: «Alla fine non sono mica morto. Li rivedrò ancora».
Già, alla fine non è mica morto. E se è vero che il mondo è un’isola, allora è bene ricordare che in un’isola, spesso, si arriva per poi ripartire. Ed è in ogni posto che si lascia, che resta sempre un pezzo di chi siamo stati. Ma le origini, invece, ci restano incollate addosso, mentre diventiamo quello per cui lottiamo. Guardate Steven Funaki, lui è un uomo libero grazie alla fatica.
Forte nel sangue. Per metà guerriero, e per metà
Maori.