Woke è un vocabolo originariamente nato all’interno della terminologia politica statunitense, e si riferisce a una persona in grado di cogliere gli aspetti della realtà circostante in maniera ampia e coerente: attenta alla res publica, ovvero a quelle “faccende di pubblico dominio” che consentono di avere uno sguardo d’insieme sulla comunità in cui ci si trova a vivere.
Ciò che più caratterizza una persona “woken” è quindi la consapevolezza. La capacità di interiorizzare le varie istanze culturali, politiche, sportive della società e del vivere all’interno di una collettività complessa e sfaccettata.
C’entra in qualche modo l’intelligenza dell’individuo, ma non solo. C’entra anche l’apertura mentale, i viaggi, le letture, la curiosità. La formazione e le persone che si frequenta. C’entra infine il coraggio di esporsi…

Come si è appena capito c’è una persona all’interno del mondo NBA che, per carisma, status acquisito e capacità tattiche e intellettuali, aderisce perfettamente ai connotati della parola woke.
Stiamo parlando del burbero e sarcastico allenatore e mentore della Spurs Nation Gregg Charles Popovich, nato a East Chicago, Indiana, in un freddo venerdì 28 gennaio del 1949.
Gregg è il figlio unico di un padre croato, Raymond, e di una madre serba, Katherine, che nasce e cresce in un luogo dove, anche secondo il censimento più recente degli Stati Uniti del 2010, è al 42,9% nero, 35,5% bianco e il 19,1% di altre etnie, con molti residenti di lingua spagnola. Si tratta insomma di una di quelle piccole città della provincia americana pericolosamente basata su una singola mono-economia e per questo in perenne lotta per la sopravvivenza. Ma, a differenza di altre realtà, questa è caratterizzata da un particolare rimescolamento etnico che rende questa cittadina sul lago Michigan votata all’acciaio delle fabbriche siderurgiche un curioso esperimento sociale.
Nel 1906 la US Steel costruisce in quella regione il più grande impianto per la produzione di acciaio di tutti gli Stati Uniti. Lungo un’ideale steel belt sorgono una serie di città più o meno grandi e interamente dedite all’acciaio: Merrillville, Griffith, East Chicago e Crown Point. Quell’industria da forma ai sogni di stabilità di tutti gli immigrati che giungono da più parti in quegli anni e pronti a tramandare ai propri figli il loro stesso destino. Fatica, sudore e un orizzonte limitato, ma un lavoro garantito.

“Sono cresciuto in un’area integrata” rivela Pop a The Undefeated “vivevamo in un progetto chiamato ‘Sunnyside’. Tutti avevano un lavoro nell’acciaieria. C’era una famiglia portoricana, una famiglia nera e una famiglia cecoslovacca, una famiglia serba, qualunque cosa. Tutti stavano bene perché tutti avevano un lavoro. In un certo senso si riduce a questo.”
Questo è il primo punto: il lavoro. La serenità e la fiducia date dall’acciaieria che garantiva e assicurava un’entrata economica regolare alle famiglie di East Chicago fa capire immediatamente come Gregg inizia a essere consapevole che negli Stati Uniti, come in tutto il resto del mondo, è il fatto di essere privato dei diritti civili, di non avere un lavoro, né speranza, che fa sviluppare il malessere sociale prima in maniera sotterranea e poi sempre più visibile e violenta.
Popovich Begins
Ma per arrivare a scrivere di proprio pugno la leggenda c’è un viaggio da compiere che a tutt’oggi ancora non può dirsi concluso. Popovich ha avuto parecchie e fondamentali tappe intermedie. La prima, come in parecchi altri casi della vita di un uomo, è rappresentata dal primo step, il luogo d’origine, l’Indiana.

Prima di divenire coach anche Popovich è stato un giocatore. Non dotato di doti tecniche e fisiche significative e all’altezza delle proprie ambizioni, ma abbastanza dignitose per aspirare di giocare per i Senators della Washington High School, guidati da Johnny Baratto, la squadra di basket più importante della città, in uno stato dove il basket è sempre stato molto più di una religione.
Nel 1960 a seguito della separazione dei genitori si trasferisce con la madre a Merrillville, cosa che costringe il piccolo Gregg, che allora ha 11 anni, a rinunciare al piccolo sogno di giocare per la sua squadra preferita. Questo sconforto acuisce l’isolamento che, sommato al trasferimento e al carattere poco incline alla comunicazione, la madre deve scardinare in maniera molto poco ortodossa.
Popovich alla fine non va a giocare per Johnny Baratto ma diventa con una giusta miscela di talento, caparbietà e dedizione tattica (e non senza difficoltà) un membro dei Pirates della squadra del liceo cittadino allenata dall’irascibile Bill Metcalf. Nel frattempo tempra la propria cattiveria agonistica sul cemento del playground di Gary e di Griffith, cittadine poco distanti da Merrillville, disabituandosi al basket soft e poco competitivo dei campionati a cui partecipa.
Lì inizia a plasmare gli impenetrabili tratti salienti del suo carattere e del suo volto, che noi ben conosciamo e come dimostrano molte foto dell’epoca.
Finita la high school entra nella Air Force Academy, diventando uno dei primi studenti della storia di Merrillville a frequentare un’accademia militare, una scelta sicura per una carriera pensata anche senza la possibile opzione della pallacanestro.
Popovich gioca ma nel frattempo si accende una scintilla differente: inizia ad allenare molto giovane. All’età di 23 anni diventa il vice nella squadra di pallacanestro della Air Force Academy, ruolo che copre fino al 1978.
Il tempo passato nell’esercito gli fa acquisire ancora più consapevolezza del mondo, in particolare il tempo passato dalla squadra nell’Europa orientale e nell’Unione Sovietica a contatto con realtà differenti e culture diametralmente opposte a quella made in USA. Questa mentalità è una vera e propria risorsa per un allenatore che anni dopo cerca e si trova tra le mani un roster dallo spiccato accento internazionale in cui vengono parlate le lingue francesi, argentine, spagnole, portoghesi e anche italiane (e sicuramente ne dimentico qualcuna).
Il periodo di formazione e quello di ufficiale dell’intelligence durante la Guerra Fredda sono quindi serviti ad allargare gli orizzonti, a trasformare un timido ragazzo dell’Indiana in un uomo con la propria visione del mondo e della pallacanestro.

Nel 1970 Pop si diploma in studi sovietici, diventa un ufficiale dell’aeronautica e due anni dopo viene nominato capitano della squadra delle forze armate che sarebbe andata in Unione Sovietica per giocare il campionato dell’Amateur Athletic Union. L’incarico successivo lo porta a Diyarbakir, nella Turchia orientale a pochi chilometri dal confine siriano, allora uno degli avamposti della NATO per il controllo del Medio Oriente.
Popovich around the world
L’infallibilità è un’illusione tipicamente umana e quando proviamo, retrospettivamente, a guardare la carriera di un allenatore di questa caratura, non dobbiamo cadere nell’errore di vedere in lui l’exemplum di una catena ininterrotta di successi orientata verso la perfezione.
Popovich viene nominato assistente allenatore degli Spurs sul finire degli anni ‘80 e più precisamente nel 1988. Sono anni densi di mutamenti internazionali e di dissoluzioni di sistemi politici di lungo corso. I dominatori delle Olimpiadi di Seoul, Unione Sovietica e Jugoslavia, in concomitanza con il crollo del muro di Berlino si avviano verso una fase di disgregazione politica e culturale violenta e traumatica. Si inizia a scorgere un mondo nuovo, fluido e interdipendente. Un mondo che premia coloro che si spingono oltre i confini nazionali. Popovich è uno dei primi a capirlo e appena arrivato agli Spurs convince la società a investire forze e denaro nello scouting internazionale.
L’inizio, tuttavia, si rivela subito una falsa partenza. Nel 1989, durante il suo necessario apprendistato alla corte di Larry Brown, la sua prima scommessa da assistente allenatore in fatto di “politica cestistica internazionale” è quella di mettere sotto contratto Žarko Paspalj, ala piccola serba dal bel tiro, dall’ottimo fisico e dal gran potenziale. Paspalj, tuttavia, difetta nella cura del proprio corpo, di autodisciplina e di etica della difesa, tutti aspetti che al giorno d’oggi fanno sorridere perché paradossalmente sono proprio i metri di giudizio attraverso i quali Popovich ammette i giocatori alla propria corte. L’esperimento fallisce ma nonostante questo, nei decenni successivi, gli Spurs correggono il tiro e pescano giocatori sempre più adatti al sistema provenienti dai campionati di altre competizioni nazionali e non necessariamente attraverso le chiamate più alte del draft. Giocatori dal punto di vista psicologico e agonistico già pronti, dotati di buoni fondamentali e spirito di squadra. Una scelta, questa, che rispecchia appieno la mentalità dell’allenatore di vedere oltre il proprio ambiente.

Viaggi, migrazione, lavoro ed esperienze di vita segnano l’uomo e il giocatore ed è proprio questo il bagaglio umano che Popovich sceglie e chiede di portare nello spogliatoio degli Spurs con l’intento di creare squadre uniche, per maturità e compattezza, e capaci di ricominciare sempre a macinare gioco sia dopo una vittoria che dopo una sconfitta.
Il brasiliano Tiago Splitter a 15 anni firma il suo primo contratto da professionista. Tony Parker esordisce in Serie A francese a 17 anni. Marco Belinelli in quella italiana a 16. Manu Ginobili ha attraversato un oceano per trasferirsi in un altro continente a soli 21 anni. Tutto questo mentre la stragrande maggioranza dei ragazzi di pari età nati e cresciuti negli Stati Uniti spesso si sono a malapena spostati da uno Stato all’altro per frequentare l’Università, rimanendo però sempre all’interno della propria cultura di nascita e di riferimento.
Qui dimora la differenza.
Per uno come Popovich non basta essere buoni o grandi giocatori di pallacanestro ma bisogna sapersi distinguere, essere socialmente consapevoli, parlare, interagire ed essere responsabili gli uni con gli altri. Tutto nel suo good to great system.
Insomma, darsi qualcosa reciprocamente, che sia un buon bicchiere di vino rosso, un libro, fino ad arrivare alla confessione di traumi silenziosi di un padre morto a Beirut in seguito a un attentato. Donarsi l’un l’altro: ovvero quello che dovrebbe essere naturale fra esseri umani.
Ma il processo che porta Popovich a guadagnarsi una reputazione tale guidando gli Spurs fino alla vittoria finale in cinque campionati NBA di tre decadi differenti e venendo nominato allenatore dell’anno NBA per tre volte, è molto lungo. Non basta sapere che durante le sue 25 stagioni alla guida degli Spurs ottiene il record di 22 presenze consecutive ai playoff e il record di vittorie NBA complessive per un coach. Non basta neanche sapere che colui che è allenatore della nazionale maggiore di USA Basketball, è anche il coach più longevo nelle principali leghe sportive professionistiche statunitensi.
Non si rimane nella stessa realtà professionale per un quarto di secolo sempre al massimo del livello sportivo e fondando addirittura quella che viene riconosciuta come una vera e propria scuola e cultura di basket se non si possiede dell’altro. Non è solo di sport che si parla.
The Gregg’s Career: a Pop Art
Gregg Charles Popovich non è sempre stato l’affascinante Coach Pop per l’universo professionistico nordamericano, per i media specializzati e per gli appassionati. Prima di arrivare a essere (o a potersi permettere di essere pubblicamente) un allenatore istrionico in grado di dribblare le domande o rispondere con tono sfacciato e sarcastico ai giornalisti, ha dovuto diradare molte perplessità. Prima del culto della difesa e dell’introduzione delle moderne spaziature del campo, soprattutto negli angoli, prima della creazione della forma embrionale di small-ball e dare una spallata decisiva al tosto e rude gioco degli anni ‘90, ha dovuto vincere. Vincere di nuovo. Rivincere e convincere.
Il 14 Dicembre del 1996, giorno del suo esordio in panchina dopo il licenziamento di Bob Hill per mano propria, Popovich da General Manager passa a guidare anche sul campo gli Spurs. Viene ricoperto dagli insulti e dai fischi lanciati dal pubblico di casa e alla sua prima stagione da capo allenatore auto insediatosi tocca immediatamente il fondo. Gli Spurs terminano la stagione con sole 20 vittorie, il peggior record della storia della franchigia. Quell’anno fanno peggio solo i Boston Celtics e i Vancouver Grizzlies. Un risultato negativo arrivato con la complicità, bisogna dire, dell’infortunio al piede di David Robinson, l’ammiraglio, prima scelta NBA del Draft dell’87 e miglior giocatore della squadra, che porta tuttavia alla massima ricompensa.
Dal draft, come prima scelta, arriva Tim Duncan che in coppia con Robinson forma le twin towers pronte a dominare assieme l’NBA nel breve-medio periodo e daranno il fischio di inizio a una storia caratterizzata da vittorie e fama imperitura. La gloria però deve essere plasmata a partire dal materiale umano a disposizione. Ed è in questo momento che entra in gioco la vision di Gregg Popovich e inizia a formarsi il nucleo base della filosofia di squadra che caratterizza i San Antonio Spurs dei successivi cinque lustri.

Sembra un po’ troppo semplicistico ricondurre tutto alla formazione accademica di stampo militare ma proprio questo è ciò che appare. Il clima imposto da Popovich, così militaresco e orientato al collettivo, così poco incline all’individualità e così allergico alle personalità appariscenti, è un inno alla coerenza e, di contro, uno schiaffo in faccia al compromesso.
Un tacito accordo a cui tutte le stelle presenti nel roster e quelle che arrivano negli anni successivi devono aderire, siglare e tenere sempre bene a mente. Negli anni ci sono molte dita puntate, sguardi di disapprovazione e insulti pesanti diretti a Dennis Rodman, Tony Parker ed Emanuel Ginobili, inizialmente, fino ad arrivare alla recente diatriba con Kawhi Leonard, mai del tutto chiarita pubblicamente.
Qualcuno lo accetta e qualcun altro no.
La conferma dello scultoreo centro di Key West con la canotta neroargento numero 50, anch’esso dalla formazione accademica squisitamente militare nonché giocatore e uomo dall’integrità morale e psicologica non indifferente, è il punto di partenza più ovvio. Il silenzioso rookie e futuro Hall OF Famer Tim Duncan come supporto tecnico ineguagliabile e pronto a prendersi la scena negli anni successivi. Fiducia a Sean Elliot, talentuosa e sfortunata ala dal canestro facile, che ha visto i suoi anni migliori andati ma che risulta tuttavia decisivo nella corsa verso il titolo con quello che viene ricordato come il Memorial Day Miracle.
Dentro Avery Johnson, il nuovo play d’ordine e uomo di assoluta fiducia.
Dentro una pletora di giocatori chiave, già abituati a vincere, come Mario Elie e Steve Kerr.
Fuori Dennis Rodman, per ragioni disciplinari e questioni di personalità non integrabile con diktat troppo allineati, sacrificato sull’altare della visione d’insieme di Popovich.
Nonostante tutto questo e alla pari di tanti altri allenatori in altre situazioni, anche Gregg Popovich è andato vicino a concludere anzitempo la sua avventura ai piedi di Fort Alamo. Già, sembra strano ma non è stato sempre così autorevolmente intoccabile come appare al giorno d’oggi.
Nello specifico ha quasi rischiato di non finire sulla panchina degli Spurs l’annata NBA ‘98-’99, quella del primo lockout e del suo primo titolo ottenuto per intenderci. A salvarlo è stato proprio uno dei suoi scudieri più fedeli, il play tascabile Avery Johnson. Dopo una quindicina di partite dall’inizio della stagione, iniziata in ritardo a causa del blocco, nell’aria aleggiava già il nome di Doc Rivers come possibile sostituto di Popovich sulla panchina. Unicamente una riunione di squadra fra i soli giocatori prima di una trasferta importante, sul bus che porta la squadra al Compaq Center di Houston, ha salvato il coach dal licenziamento.

Alla fine dell’anno, con la fiducia reciproca fra i membri del team e quelli dello staff Popovich vince il primo anello NBA.
Nonostante la vittoria né stampa né tifosi sembrano accontentarsi. Evidentemente in certi ambienti e per certe persone è più importante saper comunicare bene la vittoria stessa che vincere. In molti chiedono di rimpiazzare l’indecifrabile e scontroso allenatore con uno più carismatico e comunicativo. O perlomeno con uno che non osi abusare del proprio potere e usurpare un posto potenzialmente destinato ad altri.
L’idea che abbia “vinto facile” con un roster di quel livello e essersi aggiudicato un campionato segnato con l’asterisco a causa della brevità data dagli effetti prolungati del lockout, non riesce ad evaporare via dopo la sbornia dei festeggiamenti.
Dopo un anno transitorio, nell’estate dell’anno successivo ci pensa l’allora ventiquattrenne caraibico a smuovere le acque in casa Spurs. Un professionista al terzo anno è già libero di guardarsi intorno durante la pausa tra una stagione e l’altra. Robinson, Elliott e Johnson sono quasi a fine carriera e i Lakers di O’Neal e Bryant sono pronti a prendersi l’intera NBA. Anche Duncan desidera essere protagonista del mercato. Gira voce, infatti, che i Magic vogliano proprio lui per formare un magico trio assieme a Grant Hill e Tracy McGrady.
A orchestrare il tutto c’è ancora Doc Rivers, nuovamente nella figura di potenziale sabotatore della dinastia Spurs e di Popovich. L’affare alla fine salta, si dice proprio per un’incomprensione tra il giocatore e il neo coach dei Magic, ma la paura resta tanta. Facile parlare con il senno di poi ma l’ambiente dimesso e meno sfavillante di San Antonio è forse più vicino alle corde di The big fundamental rispetto a quello di altre piazze e mercati più glamour.
Passato lo sconcerto, assieme iniziano a scrivere la leggenda, fuori e dentro il campo.
Tip 1 – Elephant in the room
Ci vuole tanto coraggio e poca banalità. Agonistica e sociale.
Come quando ha espresso pubblicamente il suo rispetto per l’ex quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick per la sua protesta contro l’inno nazionale. Un gesto coraggioso se si tiene presente che nella sua formazione umana e accademica ha frequentato la US Air Force Academy, dove ha conseguito una laurea in studi sovietici, e dopo aver servito la patria con il quinquennio richiesto nell’Air Force ha considerando una carriera all’interno della CIA. Oppure come quando da general manager e vice presidente dei San Antonio Spurs, durante la stagione 1996-97, licenzia l’allenatore della squadra Bob Hill per autonominarsi head coach.
Una tale dimostrazione di amor proprio e follia sarebbe apparsa semplicemente ridicola e grottesca se quel gesto non fosse coinciso con l’inizio di una nuova era della pallacanestro moderna e della dinastia degli Spurs.
Popovich ha anche chiamato la questione razziale negli Stati Uniti “l’elefante nella stanza“, una tipica espressione della lingua inglese per indicare una verità che, sebbene ovvia e sotto gli occhi di tutti, viene ignorata o minimizzata. Alla base c’è il fatto che molti bianchi non capiscano lo stress quotidianamente reiterato di essere neri negli U.S.A. anche per i gesti più semplici come uscire di casa da soli o girare con la propria auto. Popovich cita il fatto di avere assistenti allenatori neri che parlavano ai loro figli dei comportamento da tenere con la polizia, cosa che lui, invece, non ha mai dovuto affrontare con i propri.
Tip 2 – Birth of a (Spurs) Nation
Nate Parker, attore, scrittore, regista e produttore, ha realizzato il film “The Birth of a Nation” con un budget di soli 10 milioni di dollari. Il film parla di Nat Turner, un predicatore battista ridotto in schiavitù che vive in una piantagione della Virginia e che conduce una sanguinosa e storica ribellione di schiavi nella contea di Southampton il 21 agosto del 1831. È la storia di una strage che ha visto più di 250 vittime, per la maggioranza neri, compreso lo stesso Turner.
Tony Parker, che è francese e ha un padre afroamericano, è stato uno degli investitori originali nel film insieme a Michael Finley, vecchia conoscenza NBA, colpiti dalla sceneggiatura nonostante non avessero familiarità con la storia narrata. L’ex play francese vede per la prima volta l’intero film in una proiezione privata con il direttore generale degli Spurs R.C. Buford e alcuni altri membri dei San Antonio. Anche Popovich è, ovviamente, presente.
Da quel giorno il coach Spurs, ritenendo importante che i membri del team interiorizzassero la prospettiva storica mostrata dal film, organizza differenti proiezioni apposta per i suoi giocatori durante i training camp, dimostrando in questo modo un grande rispetto per “The Birth of a Nation”.
Questo è un modo per sensibilizzare le coscienze dei suoi giocatori, per formare i loro caratteri e la loro personalità non solo attraverso l’allenamento fisico e muscolare sui campi da pallacanestro ma anche, e soprattutto, con la cultura. Questo è un modo per cementare quello che viene chiamata “cultura di squadra”, un’identificazione dei giocatori e dei collaboratori con la società e con lo spirito e la filosofia della Spurs Nation, non a caso attraverso l’iniziativa di un altro suo grande protetto, ex-spurs, Tony Parker.
Popovich è noto per allargare gli orizzonti di pensiero durante le innumerevoli trasferte della stagione regolare anche con l’ausilio di eventi o esperienze ritenute mentalmente stimolanti. Durante una trasferta a New York City Popovich ha portato la sua squadra a vedere la popolare commedia di Broadway Hamilton: An American Musical, un musical dedicato alla figura di uno dei padri fondatori della nazione, Alexander Hamilton.
Fra quelli rimasti maggiormente stuzzicati dall’iniziativa c’è LaMarcus Aldridge che è rimasto piacevolmente coinvolto dalla svolta hip-hop del musical.
Tip 3 – In the name of Havlicek
Etica del lavoro, lealtà, rispetto, umiltà: all’interno del percorso umano, formativo e professionale di Popovich troviamo questi principi alla base del suo lavoro.
Attualmente, questi valori sono diventati anche metri di valutazione non sono del modo in cui Popovich attua le sue scelte ma anche del modo in cui tutta la franchigia degli Spurs opera e si muove per capire quali uomini possano essere considerati giocatori adatti e in linea con queste idee umane e cestistiche.
C’è tuttavia un giocatore nella storia della NBA che Popovich riconosce come esemplare e perfettamente calzante con la propria idea di pallacanestro. Il suo nome è John Havlicek, stella della squadra di Boston degli anni ‘70 e ideale continuatore della dinastia dei Celtics post Russell e Auerbach.
Anche Hondo, chiamato in questo modo per la somiglianza con John Wayne nell’omonimo film del 1953, viene da una famiglia di immigrati dell’Est Europa. Il padre, cecoslovacco, e la madre, di origini croate come quella di Popovich, si trasferiscono a Martins Ferry, Ohio, un centro abitato di circa 15.000 abitanti del tutto simile alla Merrillville in cui è cresciuto Popovich. Una cultura in cui in si respira la stessa americanità.
Havlicek è un’ala piccola completa e versatile, uno dei migliori della storia in quel ruolo, un giocatore efficace su entrambi i lati del campo che nella sua carriera si garantisce circa 20 punti a partita in stagione regolare e la presenza per cinque volte nel miglior quintetto difensivo della lega. Tra il 1963 e il 1976 vince 8 titoli.
Innovazione, astuzia, disciplina, tenacia e altruismo. Un giocatore in grado di entrare dalla panchina a partita in corso e cambiare il corso di una gara, sia difensivamente che offensivamente.
Proprio gli ultimi secondi di gara 7 delle finali di conference del 1965, uno dei momenti più iconici della storia della Lega e della sua carriera, definiscono Hondo nella maniera in cui, un seppur ottimo giocatore, diventa determinante grazie a una giocata difensiva, basata sulla furbizia e sul tempismo.
Pare che Popovich veda in John Havlicek l’esempio da cui i suoi giocatori dovrebbero trarre ispirazione nello stare in campo e, a ricordarci questo fatto, è quell’unica fotografica rappresentante Hondo che ha sempre accompagnato il coach neroargento prima nell’ufficio del Pomona-Pitzer e poi in quello di San Antonio.
Tip 4 – Popovich al Top
In un ordinario giorno di dicembre del 2020, durante una partita fra le squadre di Los Angeles e di San Antonio Popovich inscena una delle sue classiche sfuriate. Viene espulso dopo appena un minuto di gioco. Ma la notizia non è questa.
Il fatto storico è che a sostituirlo, da head coach, c’è Becky Hammon che in quel momento diventa la prima donna ad allenare una squadra NBA.

Hammon è una donna motivata, preparata, competente e il fatto che lavori in un mondo dove l’ostentazione superomistica è predominante, sembra quasi un controsenso. Ha un passato da giocatrice girovaga: non è un caso ma lei, come Pop, entra in contatto con la cultura dell’Est Europa avendo giocato anche per la nazionale Russa e avendone acquisito la cittadinanza. La reazione primaria alla notizia, tuttavia, non deve essere tanto quella di stupirsi (sarebbe grave) quanto quella di chiedersi perché fino ad ora nessuno si sia mosso in quella direzione, sia a livello di lavoro dirigenziale che a livello di cultura.
Prima di lei c’è stata la sola Lisa Boyer, nella stagione 2001-02, nominata assistente di John Lucas ai Cleveland Cavaliers ma con modalità ancora non ufficiali e non professionalmente gratificanti: non pagata e nemmeno a tempo pieno. Quasi una specie di hobby.
Il primo a osare una mossa del genere e scardinare un limite mentale deve essere quindi una persona che da sempre si colloca borderline. Qui Pop di dimostra ancora una volta visionario e lungimirante e questo, anticipando decisamente tutti sui tempi, fin dal 2013 quando Hammon diventa Assistant Coach entrando di diritto nello Staff dei San Antonio Spurs.
“Sii te stessa, non cercare di essere me” è il consiglio dato da Pop a Hammon prima della Summer League del 2015 che lei, da lì a poco, si aggiudica alla guida degli Spurs come temporaneo capo allenatore. Un consiglio che assomiglia molto a quello dato da Maestro Shifu a Po in Kung Fu Panda: “Io non cerco di trasformare te in me, io cerco di trasformare te in te” ovvero il modus operandi che ogni mentore dovrebbe applicare con il proprio discepolo per renderlo abbastanza libero e forte da riuscire a far fronte, con le sole proprie forze, ai contrasti del mondo civile e soprattutto di quello incivile.
Hammon è una persona capace e questo Pop l’ha capito ancora molti anni fa. Chi si sorprende non vuole afferrare che il percorso quasi decennale di Hammon parte da molto lontano e culmina il giorno 30 dicembre 2020, dopo sessanta secondi di una partita fra gli Spurs e i Lakers, solo per i più disattenti.
Il suo zenit deve ancora arrivare.
Coach Pop, a woke person
La difficoltà principale nel cercare di incasellare una persona come Coach Pop all’interno di un facile sistema di giudizio fra gli sportivi è quella di staccarsi da binomi troppo netti quali vincente/perdente, ossessionato/neutro e simili.
Siamo abituati a pensare ai vincenti come a dei meticolosi ossessionati universalmente direzionati verso il risultato finale. Concetto di indubbia verità che vale per molti ma che non vale per tutti. Esistono, infatti, differenti tipologie di giocatori e allenatori che hanno improntato la propria legacy su aspetti peculiari del proprio carattere. Non esiste quindi un solo modo di essere vincente e leader, né sul parquet, né dietro la scrivania e né tantomeno su una panchina posizionata a bordo campo. Qualcuno può forse affermare che la maniera di essere leader di Tim Duncan sia stato identico a quello di Kobe Bryant? O Michael Jordan? Non credo.

L’errore più grande quando si parla di Pop è ritenere che sia un invasato della pallacanestro. Un cerbero dato dall’incrocio di un Elon Musk, un pitbull e un Tim Thibodeau. Insomma, appare chiaro che non vive solo per le spaziature in campo, le vittorie, le scelte da compiere, le sconfitte brucianti, aspetti questi che sono indubbiamente presenti ma che si ritagliano un ruolo fondamentale nella sua vita solo se complementari ad altri.
Ovvero a tutti quelli che riguardano la vita di un essere umano consapevole. Woken appunto.
Solo così facendo riesce a trascorrere il tempo sui pullman e sugli aerei di linea che portano gli Spurs in giro per gli U.S.A. concentrando i suoi giocatori, motivando e interrogando Tim Duncan su Donald Trump in materia di politica interna, Boris Diaw sulla qualità dei vini della Val-d’Oise nella regione dell’Île-de-France, Emanuel Ginobili sulla situazione economica della vacillante Argentina e, infine, Sean Marks e Shane Heal sulle differenze culturali e politiche tra la Nuova Zelanda e l’Australia.
La pallacanestro, alla luce di questo, è solo un remunerato passatempo.