Natalie Diaz è una poetessa mojave della Gila River Indian Community, ex giocatrice di pallacanestro e attivista, che recentemente è stata pubblicata in Italia grazie al contributo di John Freeman nel volume che ha curato insieme a Damiano Abeni “Nuova poesia americana, Vol. 1” (Edizioni Black Coffee, 2019) e nella rivista Freeman’s, edito sempre dalla Black Coffee.
Un suo pezzo in prosa si intitola Corpi a prova di gioco e parla, per l’appunto, di corpi.
Diaz plasma fondamentalmente aspetti solo apparentemente molto distanti gli uni dagli altri: il gioco del basket e il nomadismo, l’agonismo e le migrazioni, l’essere nativi e messicani con l’essere queer. Il sentirsi diversi e accettati.
Al centro di tutto c’è l’essere umano nella sua complessità.
Diaz usa il corpo e, descrivendo i movimenti che si ripetono sul parquet o sul cemento di un playground, racconta come si attacca e si conquista lo spazio in campo e anche sul territorio, come ci si sposta da un punto all’altro dell’area e come si valica una frontiera.
Al centro di tutto c’è l’essere umano con i propri limiti, fisici e mentali.
Il corpo avanza sempre verso il futuro, indubbiamente. Non si può negare una delle fondamentali leggi della termodinamica. Una legge unidirezionale che va assecondata per sopravvivere in una realtà dove, tuttavia, ogni tanto è necessario far saltare uno schema, fintare, improvvisare, oltrepassare un recinto, affidarsi a un compagno di squadra, andare a canestro, superare un blocco mentale. Ovvero imparare a sopravvivere in una società che non rispetta le diversità.
Dimostrarsi forti. Molto più forti di quelli di fronte a sé.

Bill Russell, ragazzo del sud
William Felton Russell, detto Bill, nasce a Monroe il 12 febbraio del 1934 e ha dovuto fin da subito dimostrare di essere assai più forte dei suoi avversari, non solo su un campo di pallacanestro.
Lo Stato della Louisiana nella prima metà del novecento non è un posto sereno in cui vivere. Soprattutto se appartieni alle minoranze etniche. Violenze, tensioni razziali e linciaggi sono all’ordine del giorno. La canzone “Strange Fruit”, nell’interpretazione di Billie Holiday, è pubblicata proprio in quei anni, più precisamente nel 1939.
«Southern trees bear a strange fruit,
blood on the leaves and blood at the root,
black body swinging in the Southern breeze,
strange fruit hanging from the poplar trees.»
Lo strano frutto degli alberi del Sud degli Stati Uniti è il corpo, inerme e ancora appeso ai rami, di una delle numerose vittime dei linciaggi che spesso, molto spesso, venivano uccisi per futili motivi, per rappresaglie e dimostrazioni di forza dalla parte della popolazione locale bianca.
Come se non bastasse a livellare verso il basso le condizioni sociali delle città e delle campagne, la disoccupazione schizza a livelli disarmanti dopo il crollo della borsa del ‘29, colpendo però in questo caso indistintamente bianchi e neri e peggiorando notevolmente la situazione.
Bill Russell cresce in un contesto di questo genere.

La famiglia Russell sceglie la California, destinazione Oakland. Il piccolo Bill ha otto anni e sopravvive nei casermoni stracolmi di gente messi a disposizione dai progetti di Public Housing.
Dimostra durante gli anni dell’adolescenza una buona confidenza con il proprio corpo, delle buone capacità di salto e di corsa, tanto che la statura e le grandi mani lo fanno avvicinare alla pallacanestro nonostante una scarsa propensione alla tattica. Questo non per limiti mentali suoi ma principalmente per il fatto che nessuno allenatore aveva colto in lui un potenziale cestistico tout court.
La sua esuberanza fisica viene immediatamente applicata nel contesto a lui più affine: la difesa del canestro e la stoppata, suo futuro marchio di fabbrica, ma in quel tempo mal visto. La stoppata vive quasi esclusivamente di tempismo e di attesa, altrimenti muore nel tentativo di essere eseguita, e queste sono due doti difficilmente insegnabili.

Durante gli anni delle scuole superiori all McClymonds High, infatti, il suo coach George Powles cerca di limare quello che a tutti gli effetti appare come un errore piuttosto grossolano: deviare al volo i tiri avversari è per lo più visto come un rischio non richiesto.
La difesa è allora per lo più basata sul contatto con l’avversario, un corpo a corpo teso a impedire la facile realizzazione, non certo a stoppare tiri con il pericolo di abboccare alle finte e alle controfinte dell’avversario. Ma Russell non demorde e vuole continuare a fare di testa sua, in virtù del mix potenzialmente devastante fra osservazione attenta dell’avversario, tempismo e doti atletiche che si porta in dono, decidendo di specializzarsi in quel fondamentale allora del tutto inesplorato, anche a livello professionistico.
University of California
La consapevolezza sociale e cestistica di Russell accresce suo malgrado man mano che si avvicina all’età adulta. Lo sport infatti riflette e porta direttamente sul campo tutte le idiosincrasie che si possono vivere nella complessa quotidianità di un ragazzo di colore in quei anni.
Russell, infatti, prende parte alla prima squadra a livello di college degli U.S.A. in cui vengono schierati contemporaneamente in campo dal fischio d’inizio tre studenti appartenenti alle minoranze etniche. Oltre a lui ci sono anche K.C. Jones, che sarà nuovamente compagno di squadra ai Celtics nell’NBA, e Hal Perry che in futuro avrebbe giocato qualche anno negli Harlem Globetrotters per poi diventare un avvocato di successo.

Il fatto che si sottolinei questo aspetto non fa che rimarcare quanto alieni possano essere i concetti di integrazione e fratellanza anche in ambito sportivo nella società americana degli anni ‘50.
Essere i primi non rende la situazione migliore, anzi, tuttaltro. Durante la sua permanenza alla USF, soprattutto quando la squadra andava in trasferta in altri Stati, i giocatori vengono pesantemente offesi e l’entourage criticato per questa apertura agli afro-americani.
Nel 1954, per esempio, in occasione di una partita del torneo NCAA a Oklahoma City non viene permesso ai giocatori di colore di alloggiare nello stesso hotel dei propri compagni di squadra bianchi. Questioni di ordinaria amministrazione di quei tempi e che si ripeteranno molte altre volte nella vita di Bill Russell.
L’affaire Lexington
Nemmeno tra i professionisti la situazione cambia. Già durante la preseason del 1958 alcuni NBA All-Stars sono coinvolti in un tour promozionale in lungo e in largo gli Stati Uniti, per raccogliere consensi e pubblico. I proprietari bianchi di alcuni hotel del North Carolina, uno Stato dove le “Jim Crow laws” ovvero le leggi emanate negli stati meridionali che rendono legale la segregazione sono più che mai attive, negano le stanze a Russell e ai suoi compagni di squadra neri, costringendolo a scrivere in seguito nel suo libro di memorie Go Up for Glory:
“Si nota, un muro che la comprensione non può penetrare. Sei un negro. Sei meno. Copre ogni ambito. Una viva, bruciante, dolorante, odorante e grassa sostanza che ti copre.”
E durante la pre stagione dell’annata NBA ‘61-’62 il malessere arriva al suo acne.
I Boston Celtics sono a Lexington, Kentucky, per giocare in trasferta una gara di esibizione contro i forti Hawks di Bob Pettit, allora di stanza a St. Louis.
Nell’albergo dove viene alloggiata la squadra ospite, tuttavia, accade un fatto spiacevolmente familiare e dannatamente consueto.
A Russell, Sam Jones e Tom “Satch” Sanders viene rifiutato il servizio al bar e poi al ristorante avviene lo stesso comportamento. Il motivo? Semplicemente quello di essere afroamericani.
I tre giocatori, sostenuti anche da K.C. Jones, comunicano al coach Auerbach la volontà di andarsene. A ruota li segue anche il rookie dei Celtics Al Butler e due giocatori di colore degli Hawks, fra cui Cleo Hill che, ostracizzato a seguito di questa decisione, non trova più spazio all’interno della Lega.
L’episodio non passa inosservato tanto che un giornale dell’epoca scrive:
“Il genio difensivo Bill Russell ha affermato di essere pronto a lasciare i Boston Celtics ‘senza la minima esitazione’ per aiutare il movimento dei diritti civili se questa decisione possa portare un concreto aiuto verso la comunità afroamericana, per risolvere le tensioni razziali”.
Bill Russell. A Celtic pride?
Per quanto possiamo essere abituati ad associare il nome di Russell a quello dei Celtics e della città di Boston alle vittorie ottenute in quel magico periodo, questo non deve illudere. Il rispetto e la benevolenza reciproca di un professionista con la propria squadra e la propria città non corrono sullo stesso binario e necessariamente paralleli con la gloria e i successi conquistati sul campo.
Il rapporto di Russell con la città di Boston infatti è controverso e a tratti problematico. Fin dal suo primo anno nell’NBA ha notevoli problemi di ambientamento. Trovare casa nei quartieri di Boston a prevalenza bianca è infatti uno di questi e la sua reazione non tarda ad arrivare. A mezzo stampa non manca di far sapere ai proprio concittadini il suo pensiero a riguardo, mettendo immediatamente il discorso su un piano del tutto diverso rispetto a quello a cui erano abituati gli abitanti di Boston.
Essere la stella della squadra non lo risparmia né da critiche né da trattamenti di favore. Rifiuta di firmare autografi. Non ha un rapporto diretto con i tifosi, rifiuta l’identificazione con la città di Boston, preferendo identificarsi solo con la franchigia, i Celtics.

Man mano che il tempo passa Russell tempra e veste la propria corazza, fatta di corpo e mente, necessaria per schierarsi giornalmente contro gli apparentemente piccoli ed eclatanti gesti di razzismo strisciante.
Nel frattempo continua a impegnarsi a favore della lotta per i diritti civili diventando un fervente attivista. Mercoledì 28 agosto 1963 prende parte alla famosissima Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà promossa dal pastore di Atlanta senza tuttavia accettare un posto vicino al palco, in quando non completamente in linea con le idee di Martin Luther King.
Partecipa quindi al grande movimento di protesta civile che porterà, pur con sanguinose conseguenze, al Civil Rights Act (1964) prima e al Voting Rights Act (1965) poi. Il Birmingham Church Bombing, l’attentato del 15 settembre 1963 nel quale rimangono uccise quattro ragazze afroamericane, gli assassinii di Medgar Evers, quelli di James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner (tra il ’63 e il ’64) il Bloody Sunday di Selma del 7 marzo 1965 con John Lewis e Martin Luther King e, infine, l’assassinio di Malcolm X nel febbraio del 65 sono solo alcuni degli episodi che segnano uno dei periodi più violenti della storia americana.
Chiude gli anni del professionismo con circa 15 punti di media e 22 rimbalzi a partita, il numero delle stoppate oscilla tra la leggenda e il mito: si narra di circa dieci, un numero giudicato assolutamente esagerato se misurato con il metro moderno ma allo stesso tempo dichiarato attendibile dai numerosi testimoni oculari.
Parallelamente, anche una volta terminata la sua carriera di giocatore e iniziata quella di giocatore/allenatore i problemi non si risolvono. Russell è il primo afro-americano a sedersi su una panchina NBA, rompendo in questo modo un tabù molto radicato, ma la scelta non ricade su di lui con grande facilità. Anche all’interno della stessa franchigia dei Celtics le correnti e le opinioni pro e contro sono molto numerose e contrastanti.
Il rapporto con la città di Boston, ormai ai ferri corti, riesce addirittura a peggiorare. Viene accusato di aver volutamente messo in difficoltà la squadra tanto che i bianco-verdi, l’anno successivo, non si qualificano nemmeno ai playoff. Russell non parteciperà alla cerimonia di ritiro della maglia né a quella per l’introduzione alla Naismith Memorial Basketball Hall of Fame di Springfield.
The Cleveland Summit
Nel frattempo Russell non è l’unico sportivo nordamericano a scontrarsi contro il sistema, in campo e fuori dal campo di gioco. In uno storico pomeriggio di tarda primavera del 1967 a Cleveland, Muhammad Ali si rende protagonista di un’iniziativa passata alla storia come il primo vero atto simbolico da parte degli sportivi americani in difesa dei diritti civili.
Quel 4 giugno, infatti, una offensive line del movimento di protesta, utilizzando un termine familiare agli appassionati di Football americano, fa capire che lo sport americano è pronto a schierarsi in maniera netta e rigorosa. Ali ha appena rifiutato di arruolarsi nell’esercito dichiarandosi obiettore di coscienza per motivi religiosi e questo ha scatenato l’ira di molti. Ha quindi bisogno di pubblico sostegno.

L’amico Jim Brown, forse il miglior running back di tutti i tempi della NFL, organizza nella sua Cleveland un incontro in cui invita alcune delle personalità di spicco dello sport, tutti afroamericani, che in quei anni hanno perpetrato la causa dei diritti dei neri. Fra cui Bill Russell, ovviamente.
In quell’occasione una decina di atleti e un avvocato, Carl Stokes futuro sindaco di Cleveland, fanno capire la loro posizione. Ali avrebbe potuto scendere a compromessi se avesse accettato di partecipare ad esibizioni di boxe per le truppe americane. In questo modo avrebbe potuto evitare di arruolarsi e le accuse di diserzione nei suoi confronti sarebbero state ritirate. Il pugile però si dimostra un uomo intransigente e di fermi principi e, dopo una riunione di un’ora e mezzo in cui i vari atleti si confrontarono a porte chiuse, comunica la decisione di continuare per la sua strada tramite una conferenza stampa passata alla storia. Non scende a compromessi e va incontro alle conseguenze del suo gesto.
Tutti gli atleti coinvolti decidono di appoggiarlo incondizionatamente. Consapevoli delle conseguenze che a livello professionale avrebbero dovuto affrontare. A supporto di Ali, infatti, c’è Bill Russell, Jim Brown, Lew Alcindor (non ancora Kareem Abdul Jabbar), Carl Stokes, Walter Beach III, Bobby Mitchell, Sid Williams, Curtis McClinton, Willie Davis, Jim Shorter e John Wooten.
Quella presa di posizione forte da parte di Russell e quel supporto pubblico ad Ali viene tuttora ricordato come il primo vero atto di ribellione e coesione fra sportivi afroamericani, provenienti addirittura da differenti discipline, che alzano la testa e parlano all’unisono contro il sistema. È propria durante la conferenza pubblica che viene scattata una delle foto più iconiche della storia americana del ‘900.
Meno di un anno dopo, più precisamente nell’aprile del 1968 nelle ore successive all’assassinio di Martin Luther King, è sua l’idea di mettere al voto la decisione di scendere in campo per la finale di Conference tra i Celtics e i 76ers di Wilt Chamberlain. Optando per la rinuncia.
La partita viene giocata comunque, in quanto i giocatori non riescono a ottenere la maggioranza necessaria per fermare il campionato, ma resta un gesto di rilevanza epocale. Un gesto del tutto simile, seppure con esiti opposti, a quello ripetuto l’anno scorso all’interno della bolla di Orlando dove si è conclusa la stagione ‘19-’20 dell’NBA e dove i Milwaukee Bucks si sono rifiutati di scendere in campo in seguito agli incidenti avvenuti fra polizia e manifestanti a seguito degli omicidi di Jacob Blake e George Floyd.
The Body and the Face
Ma veniamo a quello su cui si è volutamente taciuto fino ad adesso.
Bill Russell ha vinto 2 campionati statali, 2 titoli NCAA, per 11 volte il titolo NBA da giocatore. Ha fatto parte in qualità di perno fisico e psicologico della dinastia più vincente di sempre. Ha in bacheca una lista di record, di premi e di onorificenze individuali con pochissimi eguali. Si è di fatto aggiudicato ogni competizione a cui abbia giocato in quasi tutti gli anni della sua carriera sportiva di giocatore e di giocatore/allenatore con i Celtics (da allenatore a Seattle e Sacramento ha avuto un po’ meno fortuna).
Ha vinto, da giocatore, più di qualsiasi altro professionista dello sport Nordamericano e più di tantissime squadre messe assieme.

In occasione dei Giochi della XVI Olimpiade tenuti a Melbourne nel ’56 partecipa come membro della nazionale statunitense al torneo di pallacanestro maschile, vincendo l’oro. E dire che avrebbe potuto gareggiare anche nei 400 metri piani e, soprattutto, nel salto in alto. Russell corre in 49.6” a soli quattro secondi dal record del mondo all’epoca e salta i 2.06 m, con il record a quota 212 centimetri. Alla pari del suo rivale e amico Wilt Chamberlain dimostra una plasticità fisica e un’esuberanza atletica fuori dal comune.
Ma non è solo questo che fa di lui il campione che continua ad essere.
Ha usato il corpo per difendere il proprio canestro, la propria area e la propria persona. L’ha usato per farsi valere in una società che non lo prendeva in considerazione e in una Lega professionistica dove almeno inizialmente ha sempre trovato forme di ostruzionismo più o meno velate.
Ha usato la sua presenza fisica per rimarcare il confine fra coloro che hanno il coraggio di esporsi da quelli che non lo hanno. Ha preso decisioni impopolari scontrandosi anche con il pubblico di Boston. Ha scelto, in definitiva, le cose in cui credere e per cui vivere.
Più recentemente, nel 2017, indossando la Presidential Medal of Freedom, la medaglia consegnata dal presidente Obama nel 2011 per il suo attivismo a favore del Movimento per i Diritti Civili, si è anche lui simbolicamente inginocchiato a terra sostenendo la battaglia di Colin Kaepernick contro la violenza della polizia verso gli afroamericani e contro la NFL.
Ha sempre messo faccia e voce di fronte ai problemi e dinanzi al Problema, quello principale: il razzismo, quella piaga che non è una semplice postilla della storia. Non è solo una nota a piè di pagina o ancora più semplicemente una parola, ma è qualcosa di concreto e corporeo, qualcosa di solido e che fa male, che uccide, come un bastone, come un proiettile o un ginocchio che preme sul collo di una persona.
Un elemento sottile, etereo e solido in egual misura che striscia dai rami di un albero del Sud degli Stati Uniti, si estende ovunque e arriva fino alle strade di Ferguson e Minneapolis.
Russell ha dovuto imparare prima a essere un cittadino nero degli Stati Uniti che a essere un giocatore di pallacanestro temprando mente e corpo per diventare molto più forte di quelli di fronte a lui ed è proprio per questo motivo che, ancora oggi, ogni volta che parla tutti lo ascoltano.
