Con la profonda crisi del basket e più in generale dello sport europeo e decine e decine di superpotenze indebitate fino all’osso e incapaci di diventare autosufficienti, uno dei più ricorrenti motivetti degli ultimi anni tra i media è stata la possibilità di passare al “sistema americano” e al cosiddetto salary cap. La ragione per quale si sceglie di adottare un salary cap è piuttosto intuitiva: la ratio di base è quella di fissare regole universali, allo scopo di porre anche i mercati più piccoli (i cosiddetti “small markets”) nella condizione di poter competere con quelli più grandi (“big markets”), creando quindi una condizione di partenza teoricamente uguale per tutti. Oltre a preservare la competitività della lega, questo sistema salariale garantisce agli atleti una tutela economica migliore, con una periodica revisione che coinvolge NBA e NBPA (il sindacato dei giocatori) che si siedono a rinegoziare nuovi accordi che tengano conto della mole di denaro che il sistema produce. Non è raro nella storia NBA riscontrare rinvii nella data di inizio della stagione regolare, in seguito a fasi di stallo proprio nella trattativa per il rinnovo del contratto collettivo: stiamo parlando del cosiddetto “lockout“, verificatosi per l’ultima volta nel 2011.
Arrivati fin qui, saprete verosimilmente che l’NBA adotta esattamente questo sistema, introdotto per la precisione a partire dalla stagione 1984/85: il nostro obiettivo sarà quello di chiarire alcuni concetti, nella speranza di essere il più concisi possibile.
Disclaimer: ciò che segue è la descrizione di meccanismi piuttosto complessi (nulla di impossibile, si intende), richiedenti una certa quantità di tempo e concentrazione per essere assimilati. Inoltre, quelli presentati sono concetti fondamentali, certamente approfonditi, ma l’intenzione di base è quella di trovare un connubio tra il mantenere il più basso possibile il tempo di lettura e l’offrire una comprensione immediata, ferma l’ulteriore voglia che può subentrare di andare ancora più ulteriormente in profondità.
Spesso, molti giornalisti americani fanno tesoro delle loro conoscenze sul salary cap per ipotizzare possibili scambi tra squadre, piuttosto che prevedere la durata e il tipo di contratti firmati dai giocatori. Allo stesso modo, per comprendere a pieno il funzionamento del sistema NBA è fondamentale conoscere i concetti cardine di questo sistema salariale, totalmente diverso, per esempio, rispetto al funzionamento del nostro calciomercato. Abbiamo subito il primo consiglio da darvi: dimenticate tutto ciò che sapete riguardo campagne acquisti, cessioni, prestiti e via discorrendo. In NBA i giocatori cambiano squadra in due soli modi: tramite scambio (trade) oppure attraverso la free agency.
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Il salary cap: cenni iniziali
Ogni anno, ogni squadra NBA ha l’obbligo di rispettare un determinato tetto salariale nella composizione del proprio roster: tale restrizione riguardano unicamente i contratti degli atleti, escludendo dunque quelli del front office o del coaching staff. Tale margine definisce i limiti minimi e massimi entro i quali una franchigia può operare sul mercato dei free agent. Il limite minimo, ovvero la cifra minima totale che ogni proprietario deve riconoscere agli atleti, corrisponde al 90% del salary cap ed è denominato “salary floor“. Nell’ipotesi in cui il monte salari di una squadra risulti inferiore al salary floor, la cifra mancante al suo raggiungimento viene ripartita in egual misura tra tutti i componenti del roster.
Il tetto salariale massimo, invece, solitamente aumenta di stagione in stagione, in crescita percentuale variabile rispetto all’anno precedente. Il valore di tale incremento è determinato da vari fattori, generalmente tuttavia il concetto fondamentale è semplice: più introiti genererà la NBA in quanto lega, più alto sarà il limite imposto dal salary cap.
Poniamo un rapido esempio: dal 2010 al 2014 il tetto salariale è stato praticamente identico, fissato a 58 mln di $. Nella stagione 2013/14, il salary cap è salito fino a 63 mln $, salvo poi aumentare ancora per raggiungere i 70 mln della stagione successiva.
Nell’estate 2015/16, in seguito a un accordo multimilionario siglato dalla NBA con le emittenti televisive, il tetto salariale è rapidamente aumentato in modo esponenziale, raggiungendo il valore di 99 mln di $. Da quel momento in poi, la crescita è stata più o meno costante fino alla situazione attuale: per la stagione 2021/22 la soglia del salary cap è stata fissata a 112 mln di $.
Ogni squadra che abbia spazio salariale residuo sufficiente, può ambire a siglare un contratto con un giocatore che, dall’inizio della free agency del 1 Luglio di ogni anno (2 agosto per la stagione corrente), risulti senza contratto. Questo, insieme alle sign&trade (di cui parleremo in seguito), è l’unico modo per aggiungere talento dal mercato dei giocatori liberi.
Ma come possono alcune squadre, come ad esempio Golden State o Brooklyn, avere un monte stipendi molto più alto rispetto al limite designato dal salary cap?
La risposta a questa domanda è di facile comprensione: ogni squadra matura nei confronti dei propri giocatori con contratto garantito dei “diritti“, utilizzabili per rinnovare il contratto a quegli atleti già a roster che abbiano intrapreso la strada della free agency, potendo aggirare il limite imposto dal salary cap. Questi diritti, in caso di scambio, seguono il giocatore, permettendo alla sua nuova squadra di poter usufruire del medesimo vantaggio menzionato.
Quando la squadra entra in regime di luxury tax e quindi va oltre il tetto fissato dalla lega (come nel caso citato di Brooklyn e Golden State), è sottoposta all’obbligo di corrispondere una tassa alla lega per ogni dollaro in eccedenza (più bassa rispetto al solito nel 2020/21 sempre per via del COVID), dovendo fronteggiare anche tutta una serie di restrizioni in sede di trade.
La Luxury Tax e i diritti sui giocatori
Al pari del salary cap, la luxury tax ha un valore variabile negli anni. Quest’anno, per esempio, quel valore è fissato a 136.6 mln $.
I diritti che una squadra matura nei confronti di un giocatore possono essere di vario genere e sono di seguito indicati:
- Diritti “Full Bird”, ossia quei diritti che maturano dopo almeno 3 anni di militanza in squadra;
- Diritti “Early Bird”, ovvero quei diritti generatisi dopo 2 anni in squadra;
- Diritti “Non Bird”, cioè quei diritti che si sviluppano dopo un solo anno di permanenza in squadra.
Quando una squadra matura i diritti “bird” (indipendentemente dallla differenziazione di cui sopra) su un giocatore, può rinnovargli il contratto anche se i contratti che già ha in essere superano il valore massimo imposto dalla lega. Questi diritti, per quanto siano molto utili nel mantenere sotto contratto il nucleo di una franchigia, richiedono però un prezzo da pagare: i cap holds. I cap holds altro non sono che porzioni di salario “morto” che vanno a incidere sul monte stipendi della squadra. Per spiegarlo al meglio prendiamo come riferimento l’esempio dei Brooklyn Nets.
Al termine della stagione 2021/22 sia Kevin Durant che Kyrie Irving avranno l’opportunità di uscire dai loro contratti, liberando il corrispettivo totale di circa 78 mln di dollari. Superficialmente, si potrebbe pensare che i Nets avrebbero dunque solo 48 mln $ occupati in salari (la differenza tra il salary cap e quanto teoricamente liberato dai due), ma considerando il peso dei cap holds (necessari per rinnovare Durant e Irving) non solo non avranno spazio libero, ma saranno con un piede e mezzo in luxury tax, qualora giungessero a un accordo per rinnovare il contratto di entrambi. I Cap Holds, infatti, hanno un’incidenza maggiore rispetto ai salari nel computo del salary cap.
I cap holds impediscono alle squadre di firmare nuovi free agent, se non rinunciando per l’appunto alla possibilità di rinnovare i propri giocatori in scadenza.
Come è possibile osservare, per quanto concerne i giocatori uscenti dal primo contratto della carriera (che dura quattro anni per i giocatori scelti fra i primi trenta al draft, secondo cifre percentuali rispetto al cap), il discorso è leggermente diverso, in quanto i cap holds di questi giocatori pesano ancor di più rispetto agli altri: in questo caso le società hanno infatti la facoltà di PAREGGIARE qualunque offerta fatta da altri team. Tale peculiarità conferisce ai suddetti giocatori la condizione di “Restricted Free Agent” (RFA).
Per poter rendere un giocatore RFA (e rinnovarlo sforando il tetto salariale) occorre però che la squadra detentrice dei suoi diritti gli estenda la cosiddetta “Qualifying offer”, letteralmente un’offerta qualificante. Questa null’altro è se non un’offerta di contratto che rimane “sospesa” (può essere solo ANNUALE a una cifra pre-stabilita, di poco superiore allo stipendio percepito dal giocatore durante la sua ultima stagione) che la squadra può ritirare in qualsiasi momento, liberandosi quindi dei relativi cap hold e rendendo il giocatore un Free Agent senza restrizioni ( = UFA), rinunciando de facto alla possibilità di pareggiare eventuali offerte provenienti da altri team pervenute all’atleta.
Dal canto suo, il giocatore può decidere in ogni momento di apporre la propria firma sulla qualifying offer, rinunciando in tal modo a un rinnovo pluriennale e diventando quindi un unrestricted free agent al termine della stagione successiva alla firma della suddetta qualifying option.
Esiste inoltre un caso particolare, quello dei giocatori scelti al secondo giro del draft o addirittura rimasti undrafted: quando il contratto di questi giocatori scade, nel caso in cui siano rimasti con la loro prima squadra per meno di 3 anni, senza quindi maturare i diritti full Bird, sono previste dal contratto collettivo forti restrizioni nella proposizione, in free agency, di un contratto all’atleta da parte di altre squadre. L’insieme di tali restrizioni prende il nome di Gilbert Arenas provision. Nel rispetto di queste limitazioni, ogni squadra potenzialmente interessata a giocatori rientranti in questi parametri, può unicamente sottoporre all’atleta un contratto strutturato in maniera peculiare: i primi due anni non possono superare il valore imposto dalla non-taxpayer MLE (di cui parleremo più sotto). Solamente dalla terza stagione in poi il giocatore potrà percepire fino al 25% del cap, ovvero il massimo salariale ottenibile da un giocatore con meno di 6 anni di esperienza. Infine, un team che abbia un monte stipendi superiore ai 139 mln di $, non può proporre questo tipo di offerta; qualora una squadra decida di proporla, per la stagione corrente diventa hard capped, ovvero non può raggiungere la suddetta soglia.
Quando un atleta firma il rinnovo contrattuale, chiaramente, l’incidenza salariale dei cap Holds svanisce e viene sostituita dal valore corrispondente al salario previsto dal nuovo contratto del cestista.
Come abbiamo visto, i diritti Bird rivestono un ruolo di capitale importanza nei rinnovi dei giocatori che, uscendo dal contratto firmato da matricole (i cosiddetti “rookie”, collegiali scelti al draft), vengono confermati nelle squadre in cui hanno iniziato la loro carriera NBA. Questi giocatori ci offrono lo spunto per trattare l’argomento dei massimi salariali, che nella tabella sottostante andiamo a descrivere nel dettaglio:
Facciamo notare come, in termini salariali, la differenza vera e propria tra quanto la vecchia e la nuova squadra possano offrire, è determinata dall’anno addizionale offribile dalla prima (in caso l’atleta venga “designato”, ne scriveremo a breve), oltre che dalla differenza di aumento percentuale annua pari al 3% (8% contro 5%).
Come vedremo, la determinazione della percentuale sul cap totale percepibile da un cestista che firmi un contratto al massimo salariale, dipende sostanzialmente da tre fattori: a) gli anni di militanza nella lega, b) eventuali traguardi individuali raggiunti e c) la scelta di rimanere o meno con la squadra che lo ha scelto al draft. È importante porre l’accento su questo aspetto, in quanto il salary cap è pensato per far sì che le squadre che draftino un giocatore in uscita dal college mantengano un vantaggio di natura economica nel futuro rinnovo contrattuale. È possibile per ogni squadra scegliere un solo “Designated player“, col quale sottoscrivere un contratto della durata di 5 anni (oppure, più spesso, 4 + 1 di opzione a favore del cestista) invece dei canonici 4. Per completezza ricordiamo che è possibile aggiungere al proprio roster un secondo Designated player, ottenibile però esclusivamente tramite scambio. Questa particolare differenziazione nella stipula dei contratti da Designated player, per esempio, estromise i Celtics dalla corsa per Anthony Davis nell’estate del 2019: avendo già acquisito Irving (all’epoca un altro Designated player) da Cleveland via trade: non era possibile per Boston aggiungere un altro giocatore a roster con contratto strutturalmente corrispondente, se non nominandone uno già presente in squadra, come effettivamente è stato fatto in seguito per Tatum.
La cosiddetta “Rose Rule“, che prende il nome dal primo fruitore di tale regola, ovvero l’ex MVP Derrick Rose, prevede la possibilità per un giocatore in uscita dal contratto firmato da matricola di accedere a un salario corrispondente al 30% del cap totale (invece del 25%), in seguito al soddisfacimento di almeno una tra le seguenti condizioni:
- l’atleta in questione deve aver vinto il premio di MVP durante il suo secondo, terzo o quarto anno nella lega;
- il giocatore deve esser stato premiato con il Defensive player of the year al suo quarto anno, oppure due volte tra la sua seconda e quarta stagione;
- il cestista deve rientrare in uno qualsiasi dei tre quintetti All-NBA nella sua quarta stagione, oppure due volte fra la seconda e la quarta annata.
A oggi, dalla sua introduzione nel 2011, solo tre giocatori sono riusciti a maturare i criteri necessari per poter usufruire di tale regola: Blake Griffin ai tempi dei Los Angeles Clippers, Paul George quando militava tra le fila degli Indiana Pacers e infine, come già detto, Derrick Rose in quel Chicago. Un altro giocatore che nell’estate 2022 potrà accedere a tali condizioni contrattuali, previa soddisfazione di uno dei criteri di cui sopra, è Luka Doncic.
I criteri sopraccitati, quando soddisfatti da giocatori tra il 7′ e il 9′ anno nella lega, permettono a tali atleti di percepire un salario pari al 35% del cap, solitamente appannaggio dei giocatori con almeno 10 anni di esperienza: si tratta della cosiddetta “Durant Rule”, introdotta nell’ultimo contratto collettivo.
Completando questo sguardo sulle possibilità contrattuali dei giocatori, ricordando che le cifre da questi percepite sono sempre lorde, parliamo ora della cosiddetta “over-38 rule”, che sostanzialmente modifica l’impatto salariale di un contratto firmato da un atleta che compia 38 anni prima della fine dell’accordo siglato. La regola è piuttosto complessa: la nozione interessante da conoscere in questo caso è che nel caso in cui questa norma si applichi a un contratto, le stagioni successive al compimento dei 38 anni non contano ai fini del computo salariale, venendo invece suddivisi negli anni precedenti al compimento della suddetta età. Specifichiamo che l’over-38 rule si applica quando nell’ultimo anno di contratto il cestista compia 38 anni prima del 1 ottobre, considerata convenzionalmente la data di inizio stagione. Consci di ciò, a titolo esemplificativo, è possibile inquadrare meglio la scelta di LeBron James di rinnovare il contratto coi Lakers nell’estate 2020. Essendo nato a Dicembre, il Prescelto compirà sì 38 anni nell’ultimo anno di contratto, ma dopo il primo Ottobre: per tale motivo il contratto da lui firmato non è soggetto alla over-38 rule.
Concludiamo la trattazione della luxury tax fornendo qualche informazione aggiuntiva parlando dell’Apron, facendo menzione delle limitazioni imposte alle squadre in Luxury Zone e delle cosiddette “Luxury tax Repeater offender”. Andiamo dritti al punto: al di sopra della soglia marcata dalla luxury tax è presente il cosiddetto “Apron”. Tale valore viene fissato a qualche milione di distanza dalla luxury zone (quest’anno, per esempio, la luxury tax si attiva quando una squadra raggiunge i 136.6 mln $ a libro paga, mentre la Apron zone a partire dai 142 mln $). Entrare nel territorio dell’Apron comporta una serie di limitazioni, tra cui l’impossibilità di utilizzare la Bi-annual exception (di cui parleremo appena sotto), di utilizzare la Gilbert Arenas provision e di ricevere giocatori in sign&trade. Le squadre il cui monte stipendi sfoci nell’Apron, inoltre, possono utilizzare solo la tax-payer MLE.
Superare invece la soglia della luxury tax per 3 anni su 4 comporta un costo per i proprietari molto elevato, praticamente raddoppiato rispetto al canonico costo derivato dal pagamento della tassa stessa, già di per sè decisamente sostanzioso, come abbiamo menzionato. La condizione di “repeater tax offender” è stata introdotta dalla stagione 2014/15.
Valicare il confine della luxury tax, anche solo per un anno, comporta una serie di limitazioni in sede di trade, tra cui:
- la possibilità di ricevere solo il 125% del salari totali uscenti negli scambi, invece del 175% di una squadra che mantenga il proprio monte stipendi al di sotto della soglia della luxury (per giocatori con stipendio annuale inferiore ai 6 mln);
- l’impossibilità di ricevere più di 5 mln, rispetto al salario in uscita, sempre in sede di trade (per stipendi dai 6 ai 19.5 mln).
Avendone fatto precedentemente menzione, concludiamo questa parte analizzando nel dettaglio le sign&trade (S&T): queste rappresentano l’unico metodo attraverso il quale una squadra che abbia superato il limite imposto dal tetto salariale, può aggiungere un giocatore dal mercato dei free agent (senza contare le eccezioni, che hanno, come vedremo tra poco, un valore limitato), attraverso un accordo tra la vecchia e la nuova squadra del giocatore in questione. L’esempio più recente che viene in mente è chiaramente quello di Gordon Hayward, passato dai Boston Celtics agli Charlotte Hornets. Le sign&trade, tuttavia, sono sottoposte ad alcune limitazioni: gli atleti coinvolti devono obbligatoriamente firmare un contratto della durata di almeno tre anni, fino a un massimo di 4. Questo, come è facilmente immaginabile, per limitare ipotetiche manovre atte ad aggirare il sistema del salary cap. Infine, una squadra che durante la stagione terminata abbia solcato il territorio dell’Apron non può ricevere un giocatore tramite una S&T: vale anche l’assunto opposto, ovvero nel caso in cui una squadra riceva un giocatore in S&T, il rispettivo totale salariale non potrà toccare il margine tracciato dall’Apron, assumendo dunque la condizione di Hard capped.
Le eccezioni per sforare il salary cap
Il Salary Cap NBA prevede alcune cosiddette “eccezioni”, che permettono alle squadre di aggiungere talento al roster dalla free agency anche quando venga superato il tetto salariale prefissato. Tali eccezioni hanno valore variabile e vengono assegnate alle squadre in maniera diversificata:
- La “non-taxpayer” Mid Level Exception (=MLE), come fa intuire il nome stesso, è riservata alle squadre che, anche dopo averla usata, non finiscono in Apron Zone. Essa ha valore, questa stagione, di 9.5 mln ed è divisibile per firmare più giocatori. Il suo valore cresce annualmente, di pari passo con l’aumento del salary cap. Può essere usata per contratti con durata massima di 4 anni e aumento annuale progressivo del 5%. Utilizzandola, una squadra sarà Hard capped (non potrà toccare la soglia dell’Apron);
- La “taxpayer” MLE è invece riservata a quelle squadre che, prima o dopo averne usufruito, sforino nell’Apron. Si tratta di un’eccezione che ha valore, quest’anno, di 5.9 mln $ e, come la “sorella”, è utilizzabile, suddividendone il valore, per firmare più giocatori. Il suo valore cresce di anno in anno in maniera direttamente proporzionale a quello del salary cap ed è spendibile per contratti dalla durata massima di tre anni, sempre al 5% di aumento annuo.
- La “Room” exception viene assegnata alle squadre il cui monte salari, durante l’anno, scenda sotto la soglia del salary cap. Ha valore di 4.9 mln $ quest’anno e non può essere utilizzata in caso altre “exception” citate siano state già spese. Può essere usata per contratti di 2 anni, sempre al 5% di aumento.
- La “Bi annual Exception” (BAE) è fruibile solo da squadre il cui monte salari superi lo spazio disponibile (ovvero, per quest’anno, quei team che mantengano a libro paga più di 109 mln di dollari). La suddetta eccezione è utilizzabile esclusivamente una volta ogni due anni, solo nel caso in cui usandola la squadra non finisca in Apron zone, risultando di fatto limitata (“Hard Capped”). Ha valore di 3.7 mln $ nel 2021 e può essere usata per contratti fino a 2 anni, con aumento del 5%.
Essendo appunto “eccezioni”, quelle appena citate funzionano in modo particolare:
– Se il monte stipendi di una squadra rimane sotto il tetto massimo salariale, la room exception conterà nel computo salariale della squadra.
– Qualora un team che corrisponda ai propri atleti una somma che la ponga già oltre il salary cap utilizzi un’eccezione, questa verrà conteggiata invece nel computo totale nel raggiungimento della luxury tax.
Esistono, infine, quattro ulteriori possibilità che la NBA garantisce per aggiungere talento a roster: la prima è rivolta alle squadre con un giocatore infortunato gravemente, al punto da tenerlo lontano dal campo diversi mesi.
Per avere accesso a questa eccezione è necessaria una valutazione della lega sull’infortunio del giocatore da sostituire. Fu il caso degli Orlando Magic con Jonathan Isaac nella passata stagione: questa eccezione viene chiamata “Disabled Player Exception” (DPE). Tale eccezione ha valore pari o al 50% del salario del giocatore da sostituire, oppure a quello della “NON Taxpayer” Mid Level Exception: tra i due viene adottato quello più basso.
I giocatori raggiungibili con la DPE sono free agent, ai quali è eventualmente possibile far firmare un contratto annuale, oppure giocatori di altre squadre con contratto in scadenza nell’estate successiva.
La TPE (traded player exception) è invece un’eccezione concessa alle squadre che, in uno scambio, si liberino di un quantitativo salariale maggiore rispetto a quello acquisito. È recente il caso del già citato Gordon Hayward, volto nuovo degli Hornets, i quali tramite una sign&trade hanno permesso ai Celtics di generare una TPE dal valore corrispondente al primo anno di contratto di Hayward con Charlotte (ovvero 28.5 mln, che diventano 21.8 mln nel caso specifico dei Celtics, per via della loro condizione di “Hard Capped”, in seguito all’utilizzo della MLE per l’accordo biennale con Tristan Thompson). Le TPE scadono dopo un anno solare dalla loro generazione e si possono utilizzare solo in uno scambio, per assorbire il contratto di un unico giocatore. In tale scambio, la squadra ricevente può esclusivamente offrire scelte per compensare la squadra cedente, non potendo quindi coinvolgere altri giocatori.
Le ultimissime eccezioni riguardano gli atleti scelti al draft (il cui salario è predeterminato e che sono sempre arruolabili a prescindere dalla situazione salariale) e i giocatori al minimo salariale. Ogni squadra che abbia sforato il cap può mettere infatti sotto contratto, od ottenere tramite scambio, nuovi giocatori con uno stipendio minimo, che varia in base agli anni di esperienza nella lega.
Precarietà in NBA
Nello sport professionistico chiunque è soggetto a continue valutazioni da parte di stampa e tifosi. Possiamo considerare i contratti firmati dai cestisti d’oltreoceano, rispetto per esempio a quelli siglati dai calciatori, come garanzie date ai giocatori direttamente dalla lega, più che dalla squadra con cui firma: anche in casi di scambio infatti, un atleta mantiene le condizioni del contratto firmato originariamente. Le squadre, tuttavia, hanno facoltà di interrompere i contratti in essere prima della loro naturale scadenza, potendo ricorrere a varie opzioni concesse dal salary cap. Il primo caso è rappresentato dal cosiddetto Buyout, nel quale una squadra e un atleta si accordano per interrompere anticipatamente il loro rapporto, con un risparmio economico a favore della società, a fronte di un pagamento immediato corrisposto al giocatore. Il buyout rappresenta tuttavia unicamente un accordo fra giocatore società: l’impatto sul salary cap non risulta inficiato in nessun modo.
Differente è invece il discorso riguardante i tagli degli atleti effettuati tramite l’utilizzo della “stretch provision“, che permette a un team di spalmare l’impatto generato dal contratto di un atleta su più stagioni. Per descrivere meglio tale circostanza, prendiamo a titolo esemplificativo il contratto di Luol Deng, sul quale i Los Angeles Lakers nell’estate del 2018 hanno applicato la stretch provision, spalmando i 36 mln di dollari dovuti all’ex giocatore dei Bulls su cinque anni invece che sui due previsti originariamente. La stretch, infatti, permette di ripartire l’ingaggio (e il suo conseguente impatto sul cap) sul doppio + 1 degli anni rimanenti nel contratto. Tale scelta viene attuata principalmente per generare spazio salariale e poter accedere ai free agent sul mercato (un altro caso menzionabile e più recente riguarda Batum, sul quale Charlotte ha applicato la suddetta stretch provision per potersi accordare con Hayward).
NO-TRADE CLAUSE, EXHIBIT 10, TWO-WAY E 10 DAYS CONTRACTS
Un giocatore che abbia almeno otto anni di militanza in NBA, può accordarsi con una squadra perché nel contratto venga implementata la cosiddetta “no-trade clause“, attraverso la quale l’atleta può rifiutare eventuali destinazioni non gradite in sede di scambio: una possibilità piuttosto rara, concessa a un ristrettissimo numero di giocatori nella storia NBA (tra i più famosi citiamo Kevin Garnett, Kobe Bryant e Dirk Nowitzki).
Gli “exhibit 10 contracts” sono, molto sinteticamente, contratti che permettono agli atleti di partecipare ai training camp delle squadre, con la chance di entrare a far parte dei 15+2 giocatori del roster.
Il “+2” è rappresentato dai giocatori che firmano un contratto “two way”, di recente introduzione, il quale permette alle squadre di aggiungere appunto due atleti ai loro ranghi, con la possibilità di inviarli alla G-league per proseguire il loro sviluppo e, allo stesso tempo, poterli convocare con la prima squadra in caso di necessità. L’altra faccia della medaglia, quantomeno dal punto di vista delle franchigie, è che dopo 45 giorni di militanza con la prima squadra, il contratto two-way viene automaticamente convertito in un contratto garantito.
Infine, i 10 days contract sono contratti non garantiti che permettono a una squadra di poter testare sul campo un atleta prima di offrirgli eventualmente un contratto garantito. Il contratto da 10 giorni è rinnovabile unicamente una volta per la medesima durata di tempo: dopo 20 giorni complessivi la squadra dovrà scegliere se garantire o meno il contratto per il resto della stagione.
Con questo si conclude questo piccolo vademecum sul salary cap. Qualora voleste approfondire ulteriormente la questione, ecco il link fondamentale da consultare: si tratta di una guida dettagliata e completa del giornalista americano Larry Coon, esperto di salary cap, senza il quale questo articolo non avrebbe mai visto la luce.