C’è un preciso momento dell’anno, a marzo, dove il basket collegiale americano trasla la sua dimensione domestica – per quanto grande possa essere il territorio nel quale si ramifica – in una sostanzialmente internazionale, attirando appassionati da tutto il mondo per il mese della follia, quella March Madness che in tanti sognano solamente di giocare. Tra quei “tanti”, c’era anche Davide Moretti.
Dopo due anni in crescita Treviso, infatti, il figlio di Paolo aveva tentato la traversata oceanica per sbarcare a Texas Tech University, nel 2017. Una scelta comprensibile, che in tanti si chiedevano se avrebbe ripagato. Con il senno di poi, non solo ha ripagato: lo ha reso un giocatore migliore e probabilmente, dopo una di quelle esperienze che cambiano la vita, una persona migliore.
Un inizio complesso
Il classe 1998 si affaccia al mondo universitario statunitense a 19 anni, quando il 12 giugno 2017 firma un Athletic Scholarship Agreement in Division I. Ciò significa che avrebbe lasciato l’Italia per approdare in un mondo talvolta respingente, specialmente se non entri a far parte fin da subito del gruppo squadra. Davide salta la prima parte di preparazione, ed il suo inserimento nelle rotazioni è graduale, quasi sempre in uscita dalla panchina.
Il suo anno da freshman lo vede emergere gradualmente: “Sapevo che la squadra in cui stavo andando era molto forte, con giocatori più preparati di me nel mio ruolo. Mi stavo affacciando ad un basket completamente diverso, un’esperienza totalmente differente da quella a cui ero abituato in Europa. Ero consapevole che sarebbe stata dura. Non come lo è stata per i primi tre mesi, dove sono comunque riuscito ad adattarmi e capire che faceva parte di un processo. Fortuntamente, con il passare del tempo, mi sono ritagliato il mio spazio anche nel mio primo anno da freshman”.
Chiude la sua prima stagione a 3.5 punti e 1.1 assist di media in appena 12.3 minuti a partita, tirando con il 38.2% da due ed il 31.7% dall’arco. Non parte mai titolare, eccezion fatta per una partita. Ma la svolta arriva nella seconda stagione, dove coach Chris Beard, che era più abituato allo stile di gioco europeo rispetto ai suoi colleghi per un’esperienza precedente in Svizerra, inizia a dargli più fiducia.
La sua figura sarà fondamentale per Davide, che non si scoraggerà e continuerà a progredire una volta percepita la stima del suo allenatore, molto più concentrato sullo sviluppo tecnico-tattico della sua squadra piuttosto che sul recruiting, aspetto nel quale diversi coach NCAA si sono sempre più specializzati nel corso dei decenni.
A tal proposito, Moretti ricorda la struttura del suo coaching staff a Texas Tech University: “Al college ci sono talmente tanti allenatori nel coaching staff che tutti possono ritagliarsi ruoli differenti. Mi ricordo che a Texas Tech era presente un addetto al recruitment, che andava in giro molto spesso con quello specifico compito. Se c’era un top prospect, sicuramente anche il capo allenatore sarebbe andato a vederlo giocare per poi parlarci di persona”.
Ad ogni modo, Chris Beard era il faro a cui affidarsi, colui che aveva scelto di puntare su Moretti in un mutuato rapporto di stima reciproca: “La figura del mio allenatore rimaneva tale, ed alle occasioni faceva recruitment. Lui è stato più un allenatore per me, ho avuto la fortuna di averne uno vero e proprio piuttosto che un recruitment. So bene che al college ci sono molti allenatori che sono più recruiter che allenatori, ma per fortuna ho avuto un allenatore che era bravo in quello che faceva”.

Il Davide Moretti versione NCAA
La svolta, come si diceva, arriva nella sua seconda stagione con i Red Raiders. Davide Moretti diventa titolare nelle rotazioni di Coach Beard, nel gennaio 2019 segna il suo NCAA-high fino a quel momento con 21 punti dopo aver scollinato i 10 solo in due occasioni nella sua annata da freshman e soprattutto riesce ad alternare ottime prestazioni sul parquet a quelle sui banchi universitari. Ottiene l’Elite 90 Award per eccellenza accademica e, soprattutto, traina Texas Tech in quel viaggio di marzo che tutti vorrebbero fare.
“Per raccontare quell’anno lì, culminato con le Final Four, dovremmo fare un’intervista di venti pagine. Si tratta di un’esperienza che non capita a tutti quanti, un’esperienza unica per la quale è difficile trovare le parole giuste. Per fortuna tutti i momenti più belli, i ricordi di quella settimana o di quell’anno, che è stato veramente speciale per me, ce li ho tutti nitidi e chiari in testa”, dice con la voce alterata da qualche tipo di emozione.
Una cavalcata folle, che non li vede subito sotto le luci della ribalta: “In campionato vincemmo le ultime nove partite di fila per vincere il Conference Title. Da lì, nel torneo della Big 12, perdemmo malamente senza mai stare in partita contro l’ultima che era West Virginia: quel momento lì ci ha fatto un attimo tornare sulla terra. Ci è servito per capire che dovevamo tornare a lavorare duro e fare un ultimo rush finale. Avevamo sì vinto il campionato della conference, ma sapevamo che la nostra squadra era capace di fare molto altro, molto di più. Quella sconfitta ci è servita per fare gruppo ancora di più, per allenarci ancora più duramente”.
In quelle nove vittorie consecutive prima della sconfitta con West Virginia, Davide è infermabile: 14.2 punti e 3.4 assist di media, con il 56.7% dal campo e il 64% (!) dall’arco. “Alla fine, siamo arrivati alle Final Four vincendo le prime due 64, 32, poi Sweet 16… quindi cinque su sei. Quella settimana lì è stata fantastica, perché avevamo l’appoggio di tutta l’università e lo sentivamo giorno dopo giorno. Avere tutti quei ragazzi della tua età che ti sostenevano è stato davvero qualcosa di speciale”, ricorda Davide in merito al cammino che li aveva portati fino alle Final Four, battendo nell’ordine Northern Kentucky, la Buffalo del “bresciano” CJ Massinburg e del “brindisino” Nick Perkins, la Michigan dell’attuale giocatore dello Zalgiris Kaunas Ignas Brazdeikis, e la Gonzaga di Rui Hachimura.

Texas Tech inizia la sua Final Four di Minneapolis battendo Michigan State davanti a 72.711 persone. E poi arriva la finale, contro i Virginia Cavaliers di Kyle Guy e De’Andre Hunter. E si ricorda di aver fatto per la prima (e finora ultima) volta in carriera un qualcosa che non gli è mai capitato. “Il giorno della finale ci sono stati un paio di momenti, e non mi capita mai, dove durante due tiri liberi di un mio compagno mi sono guardato intorno per staccare un attimo la testa dalla partita. Per cinque secondi mi sono guardato intorno per cercare di capire cosa stessi vivendo, per assaporare il momento. È stato veramente bellissimo”, racconta.
“Prima della partita ero talmente concentrato che veramente non pensavo ad altro. Penso di non essere mai stato così concentrato per una partita tanto quanto lo sono stato quel giorno. L’ansia poi, una volta che entri in campo, sono riuscito a incanalarla nel modo giusto, nel cercare di aiutare la squadra nel miglior modo possibile”. Texas Tech non vincerà quel torneo e Davide Moretti non passerà alla storia come primo italiano ad alzare al cielo il trofeo NCAA. Lo farà Francesco Badocchi, proprio rappresentando Virginia.
Davide Moretti chiuderà quella stagione come una delle promesse in rampa di lancio dell’intera America, raccogliendo 11.5 punti, 2.4 assist, e 1.1 rubate a partite oltre ad affermarsi come secondo miglior tiratore dalla lunetta in tutto il Paese con il 92.4% a tempo fermo. L’anno da junior lo vede ancor di più emergere come leader emotivo e tecnico della squadra, ma la pandemia interrompe la stagione, con la March Madness che viene cancellata a cinque giorni dall’inizio.
Qualche mese dopo, Davide Moretti ritorna in Italia, chiamato dall’Olimpia Milano. Una decisione che non si recrimina, pensandoci a mente fredda. “Ci ho pensato veramente tante volte, però se torno indietro ai mesi in cui sono stato con questo pensiero in testa e questa decisione, che dovevo prendere, probabilmente rifarei la scelta che ho fatto. Alla fine del terzo anno purtroppo è arrivata la pandemia e non si sapeva se il campionato NCAA sarebbe ripartito, con tanti punti interrogativi che non tornavano. C’era una situazione completamente nuova, e la proposta di Milano era una di quelle che fai fatica a non prendere in considerazione. Se non ci fosse stato il Covid, molto probabilmente sarei rimasto per finire i miei quattro anni al college”, dice il nativo di Bologna, che un anno dopo sarebbe tornato al campus per laurearsi in scienze umane.
Dear Lubbock Texas,
— Davide Moretti (@davide11moretti) August 13, 2021
I would’ve never thought that one day you could become so special to me. In 20 days I was able to run a camp, graduate, attend my best friend wedding and last but not least, I got to see those that I now call my brothers. Can’t wait to see you next summer ❤️🖤 pic.twitter.com/kpVVzjnEtp
Da Texas Tech a Pesaro
Oggi, Davide Moretti è un volto noto del nostro campionato dopo essersi unito a Pesaro nell’estate 2021. Nelle Marche ha ritrovato quella fiducia che era andata persa, per via della troppa concorrenza in una squadra da Final Four di EuroLega, al Mediolanum Forum. E nello spogliatoio della VL, che è arrivata a giocarsi una semifinale di Coppa Italia 2023, il figlio di Paolo può contare su altri ex NCAA, come Dejan Kravic, Muhammad-Ali Abdur-Rahkman, Jón Axel Guðmundsson, Kwan Cheatham, e il rientrante Austin Daye.
Indubbiamente, è qualcosa che unisce, a prescindere dall’ateneo di appartenenza: “In Italia e in Europa non c’è l’attaccamento alla propria università che diventa la tua squadra, ma il legame con quell’ambiente, se giochi al college, è un qualcosa di molto forte in America. Le persone ne vanno fiere. Con Kravic, che è stato anche lui a Texas Tech, è subito scattato quel feeling: abbiamo vissuto nello stesso campus, seppur in tempi diversi, ma sappiamo che aria tira da quelle parti. È difficile da spiegare, ma è un qualcosa di cui si parla molto spesso. Come Abdur-Rakhman va fiero del fatto che abbia giocato a Michigan arrivando alle Final Four. Lui è uscito prima di me, noi nel 2019 li battemmo e lui disse di ricordarsi di quella partita. Tutti quanti seguiamo tutt’oggi le nostre vecchie squadre, quindi è bello parlare e aggiornarsi su come vanno”.

Davide, passando dall’A2 al college e dall’NCAA alla Serie A, sa benissimo la differenza nell’approccio ai giocatori, i veri protagonisti. “In NCAA non sei un professionista, e magari sei meno bersagliato dalla stampa, dai tifosi o dalla società. Non avendo un contratto, se per una settimana fai 0/20 dal campo rimani in squadra. Magari giocherai di meno, ovvio. C’è un tipo di pressione differente, ma sono anche dell’idea che in NCAA la pressione ci sia in base agli obiettivi che ti poni: se sai che devi assolutamente performare al top, ti comporti in modo diverso”, dice l’ex Olimpia Milano.
Legato a ciò, c’è ovviamente il metodo che viene intrapreso dagli allenatori, e tra Chris Beard (suo coach a Texas Tech) e Jasmin Repesa (suo attuale allenatore e successore di Luca Banchi a Pesaro) ci sono più similitudini del previsto: “Gli allenatori usano modi differenti nell’approccio ai singoli e allo spogliatoio. Tra Repesa e Beard vedo tante similitudini ma in un modo completamente diverso tra quello che è il professionismo dalle nostre parti e nell’NCAA. Per fortuna, sono due universi differenti che non si avvicineranno mai così tanto, anche se con il fatto che ora i giocatori del college possono essere pagati ci si sta avvicinando molto più al professionismo rispetto a quando c’ero io. Vedo tante cose in comune tra di loro, dalla voglia che entrambi mettono nel cercare di migliorarti, nel darti consigli e trasmettere la loro enorme esperienza”.
E a tre anni di distanza dall’uscita di Davide Moretti dal college, Niccolò ha scelto di seguire le orme del fratello maggiore per entrare a far parte di Illinois. Una scelta oculata, intelligente. “Niccolò è andato ad Illinois già da quest’anno e secondo me ha fatto una scelta sensata, abbastanza intelligente: è andato subito per cercare di adattarsi e cercare di capire come funzionasse per arrivare preparato al suo anno da freshman, che sarà verosimilmente all’inizio del prossimo anno”, dice Davide del più piccolo in famiglia.
Approdare in NCAA alcuni mesi prima del vero esordio può essere fondamentale: “Lui è già in squadra e quest’anno molto probabilmente non giocherà, ma saranno mesi molto importanti perché capirà bene come funziona il tutto, cosa che a me è mancata. Io saltai tutti i mesi estivi in cui conosci la squadra, ti alleni e ti prepari fisicamente per il campionato. Arrivai ad agosto che era praticamente finito il training camp, un momento importantissimo. Mi è mancato quel tassello che sono sempre stato costretto a rincorrere per qualche mese. Lui da quel punto di vista parte molto avvantaggiato. Gli ho detto, e lo sa benissimo, che alla prima difficoltà non si deve abbattere, e non sarà una. Soltanto con la pazienza ed il lavoro quotidiano i risultati arriveranno, perché ha talento e passione”.
Talento, passione, abnegazione. Se si dovessero utilizzare tre parole per descrivere il processo che porta un ragazzo a scegliere una strada complessa da intraprendere, in un contesto completamente diverso da quello a cui sei abituato, per perseguire il tuo sogno, allora queste sarebbero adatte. Quelle che hanno contraddistinto il cammino di Davide Moretti, arrivato in punta di piedi e uscito da giocatore ed alunno memorabile da Texas Tech University. Once a Red Raider, always a Red Raider.
