Godersi il viaggio, qualsiasi esso sia, è la cosa più importante. E noi ce lo siamo goduti. Sono stati giorni molto intensi, giorni in cui abbiamo avuto la volontà di provare a misurarci sia come uomini che come professionisti, atleti e allenatori, in un contesto che fosse diverso da quello purtroppo inquinato – per nostra responsabilità – dalla pressione che sale quando non riesci a performare come vorresti. Avevamo voglia di rivalsa, voglia di dimostrare alla città di Brescia che questa squadra ha un valore. E poi, appunto, c’è stata la volontà di godersi quel palcoscenico in un contesto meraviglioso, e provare a dimostrare a noi stessi e a nessun altro che fossimo in grado di competere.
Per mille motivi diversi, siamo arrivati alla Final Eight in un momento di difficoltà, inanellando sconfitte consecutive che hanno pesato nel morale e hanno minato il nostro percorso. Ma che questa squadra fosse costruita dall’inizio dell’anno per fare bene e dare continuità a quanto fatto nella scorsa stagione, beh, questo lo sapevano tutti. È in virtù di questo che le squadre che abbiamo affrontato lo hanno fatto sempre con enorme rispetto, che fossero sulla carta meno o più attrezzate di noi.
E il rispetto te lo guadagni se dimostri di saper lavorare e giocare con serietà. La Coppa Italia ha rappresentato l’occasione per riscattarci, per far vedere a tutti che potevamo fare qualcosa di grandioso, che alla fine si è tramutato in qualcosa di storico: portare a Brescia, come club e città, e a tutti i nostri tifosi, un trofeo mai visto prima. Impensabile alla vigilia della Final Eight.

Qualificandoci da ottavi, avevamo davanti un percorso sicuramente molto complicato. Alla prima affronti Milano, i campioni in carica che giocano anche con lo Scudetto sul petto. Una squadra fortissima, stracolma di campioni con una leggenda in panchina. Nonostante tutto, però, averla come prima ci ha aiutato, vista l’importanza e il livello di partita che ci apprestavamo a giocare. Ci ha aiutato a riunirci mentalmente, a provare a fare fronte unico per tentare una prima impresa che poi è diventata gigantesca alla fine dei cinque giorni, dal mercoledì alla domenica.
Sia contro l’Olimpia che nelle partite successive con Pesaro e Virtus, le parole chiave sono state “solidità” e “continuità”. La prima perché l’abbiamo dimostrata in lungo e in largo: solidità mentale, e poi fisica. E poi tecnica e tattica. La seconda fondamentalmente perché sarebbe stato facile, non banale e ipotizzabile, pensare che in semifinale non potessimo essere così attenti, dopo aver vinto contro Milano. Invece, per quanto mi riguarda, abbiamo dato seguito con una partita addirittura migliore. Quando siamo arrivati in finale, avendo preso coscienza e consapevolezza, avendo già dimostrato di saper battere delle ottime squadre, ce la siamo giocata fino alla fine, con grande autorità.
Per tutto l’arco della manifestazione, abbiamo giocato una pallacanestro di squadra e di qualità tanto in attacco quanto in difesa. Lo abbiamo fatto disputando delle partite alla pari, rimanendo in gioco ed addirittura conducendo per ampi tratti in tutte e tre le gare. Anche grazie a degli episodi dove siamo stati particolarmente lucidi, sia ai quarti che in finale, quando sia Milano che Virtus hanno rimontato un gap importante. Entrambe le volte eravamo andati a +18 e abbiamo saputo resistere, portando la squadra fino alla fine.
Siamo stati tutti sulla stessa pagina, mettendo in campo un livello molto alto di identità – la nostra – e fisicità. E si vedeva che c’era proprio voglia di raggiungere un obiettivo insieme. Le cose migliori dall’inizio dell’anno, soprattutto dal punto di vista difensivo, nel rispetto delle regole e nello stare concentrati per 40 minuti non avendo cali quando si andava in difficoltà, le migliori azioni e situazioni: tutto ciò è avvenuto in questa competizione. Segno che, ovviamente, quest’opportunità ci dava benzina in più.

La pallacanestro che mi piace provare ad esprimere è fatta di idee e di esigenza, ma non si deve mai dimenticare che i veri protagonisti sono i giocatori. Amedeo Della Valle è sicuramente il nostro leader. Lo ha dimostrato nella passata stagione, e la Final Eight è stata la ciliegina più gustosa da mettere sulla torta. Amedeo sa caricarsi la squadra sulle spalle, ha clamorosamente migliorato la sua capacità di alternare le sue doti realizzative a quelle di creator in grado di mettersi a disposizione della squadra per cercare di punire le difese che hanno attenzioni particolari nei suoi confronti. Non è un caso che abbia vinto non solo l’MVP, ma anche il premio di miglior Assistman della competizione.
Voglio bene ad Amedeo, e lui vuole bene ad Alessandro Magro, perché il nostro rapporto nasce innanzitutto nella stima reciproca e nella volontà di raggiungere un obiettivo comune. Ho sempre provato, come con tutti, a metterlo nelle migliori condizioni per rendere al meglio ogni sera, cercando di provare ad enfatizzare attraverso il sistema di gioco quelle che sono le sue enormi ed eccezionali caratteristiche, soprattutto offensive. Quando inizi un percorso insieme e cerchi di raggiungere un obiettivo, raggiungere un traguardo così importante è un enorme soddisfazione. Una di quelle che ti ripagano degli sforzi, che non sono stati pochi. Questa sarà sempre la Coppa Italia dove Amedeo Della Valle ha giocato da MVP e dove Alessandro Magro è riuscito a condurre la squadra ad un traguardo così importante.

Ma se le prestazioni di Ame sono sotto gli occhi di tutti, nessuno riesce a fare nulla da solo: ognuno ha portato a suo modo un contributo enorme, essenziale. Vitale. È stato importantissimo il recupero dall’infortunio di John Petrucelli, un giocatore che riesce a dare grande solidità in difesa e maggiore pericolosità in attacco. Sono felicissimo che C.J. Massinburg abbia avuto continuità nelle ultime prestazioni e sia riuscito a dimostrare veramente i lampi di talento che può avere. Insieme ad Amedeo e John, è stato l’alfiere che ha firmato questa vittoria.
Aleksej Nikolic e David Cournooh sia in attacco che in difesa, Nicola Akele in alternativa a Kenny Gabriel, uno dei nostri equilibratori di squadra soprattutto in difesa oltre alla sua capacità di aprire il campo nel tiro da tre punti. Christian Burns, che tiene molto a questa maglia e a farsi trovare pronto ogni volta che viene chiamato in causa, è riuscito a fare tre partite da centro dominante nonostante nel resto della stagione non abbia mai avuto la possibilità di farlo per tanti minuti, facendosi trovare prontissimo nel momento in cui siamo arrivati alla Coppa orfani di un giocatore molto importante per noi come Michael Cobbins. E poi Tai Odiase, solidissimo su ambo i lati del campo per tutte tre le partite.
Quando arrivi a giocare per qualcosa che è tangibile ed è lì davanti a te, un trofeo che vorresti essere tu ad alzare al cielo, se ognuno di loro ha delle motivazioni personali, ed ha capito per cosa stiamo giocando, le forze e le energie si moltiplicano esponenzialmente. Prima di ognuna delle tre partita, in spogliatoio ho detto che ognuno avrebbe dovuto trovare una sua motivazione. Ognuno gioca per qualcosa: per i propri figli, le proprie fidanzate, gli amici, i genitori. Per i compagni. Ho detto loro di trovare una motivazione per la quale lottare, provare a dare quel qualcosa in più che poi, sommato a tutto quello degli altri, sarebbe riuscito a darci la forza e la motivazione per fare delle prestazioni che sicuramente erano nelle nostre corde.

Portare a Brescia questo trofeo era una cosa alla quale tenevo molto, perché per me Brescia vuol dire tanto: quella in cui vivo, in cui vive la mia famiglia da sette anni, quella che mi ha dato per la prima volta grazie a Mauro Ferrari la possibilità di allenare in Serie A da capo allenatore dopo gli anni all’estero. Mi sento molto legato a questa città e ripagarla da leader tecnico, guidando questa squadra alla vittoria di un trofeo così importante è equivalso al ripagare la fiducia riposta in me e nei miei mezzi. Brescia ci era arrivata vicinissima anche nel 2018, ma le condizioni erano estremamente diverse rispetto a quella Coppa Italia. Nella mia prima parentesi cercavo di essere una risorsa spero importante e preziosa per coach Andrea Diana, ma ovviamente quando non sei capo allenatore non tutto viene eseguito come te lo immagini, ed è giusto così per ruoli e gerarchie. Questa vittoria è figlia di idee e scelte, delle scommesse che io insieme al mio staff, insieme a Marco De Benedetto e alla società, abbiamo deciso di fare insieme. È un traguardo conquistato anche troppo velocemente, in un nuovo progetto che è totalmente figlio delle nostre visioni.
Non è solo quello che abbiamo fatto, ma il come l’abbiamo fatto. Ogni anno fa storia a sé, ma credo che mai come in questa e nella passata stagione il campionato italiano sia di assoluto livello, con Milano e Bologna come due superpotenze che sono la locomotiva del nostro movimento. Riuscire da ottava ad eliminarle entrambe, oltre ad una Pesaro allenata egregiamente da un maestro come Jasmin Repesa, dà a questa coppa un valore del tutto particolare, diverso da quello che era successo anni fa a Firenze. Ho avuto la fortuna in passato di far parte di gruppi e di squadre costruiti per vincere, e sono riuscito a vincere tanto: Coppe Italia, Supercoppe, Scudetti, partecipazioni alle Final Four di EuroLega, il massimo raggiungimento in Europa per un club. Però ovviamente farlo da capo allenatore in un gruppo che vuole provare a fare bene, lavorando di qualità e riuscendo a farlo per come ci siamo arrivati, credo che sia stata la tempesta perfetta.
Ci renderemo veramente conto di quello che abbiamo fatto solo alla fine del campionato, perché ad oggi i nostri pensieri sono rivolti al lottare per allontanarci dalla parte bassa della classifica, ripartendo con grandi ambizioni anche in EuroCup. Non ci godremo questo trofeo ancora per un po’, perché ci sarà ancora da battagliare. A fine stagione ci fermeremo. Ci prenderemo il nostro tempo. E troveremo il modo per metabolizzare che abbiamo fatto la storia di questo club. Per Brescia e con Brescia.

Scritto in collaborazione con Cesare Milanti.